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Dal punto di vista giuridico ogni emergenza ha il suo virus: il caos. È il caos che corrode la certezza del diritto, sovverte le gerarchie dei valori, minaccia la tranquillità della nostra libertà e ci toglie la prevedibilità delle regole.
Il caos ha un solo vaccino: l’ordine. L’emergenza finisce nel momento in cui la certezza, le gerarchie, la tranquillità e le regole vengono ripristinate. Nel momento in cui l’ordinamento giuridico torna a essere ciò che la radice della parola invoca: un sistema di ordine.
L’ordine è l’orizzonte cui il diritto tende, la sua ragion d’essere, ciò che rende tollerabile il sacrificio di doverlo osservare. Solo nell’ordine può esistere la libertà, perché la libertà ha bisogno della certezza del suo perimetro e dei suoi bastioni, la tranquillità del suo godimento, la prevedibilità della sua durata e delle regole che la riguardano. Altrimenti la vita di ciascuno diviene un incubo di istanti che si susseguono kafkianamente nella totale precarietà. Ma noi italiani abbiamo un problema con l’ordine. Un problema che viene da lontano; abbiamo la fobia dell’ordine. Abbiamo costruito retoriche tonitruanti contro la minaccia della pretesa d’ordine. Del concetto di ordine abbiamo interiorizzato solo le potenziali minacce, i potenziali rischi. Per noi ordine evoca l’uomo d’ordine, l’ordine pubblico evoca la repressione, le regole evocano il formalismo. Non siamo mai riusciti a costruire una dottrina liberal- democratica dell’ordine. Col paradosso che viviamo da mesi sotto ordini e ordinanze di necessità, in una terribile nostalgia di normalità, dimenticando che non c’è normalità senza ordine.
È questa relazione immatura con il diritto a contrapporre ordine e libertà. È il cascame di culture che invocavano il diritto come sovrastruttura e come mezzo semplicemente strumentale ad altri fini. Ma è anche la cultura marcita del diritto come affare di azzeccagarbugli, come cumulo di gride, più compatibili ( perché destinate esponenzialmente ad aumentare) con il periodo della “peste” che con quello della normalità.
Per questo da sempre l’emergenza ci piace. È triste dirlo in questi giorni. Ma è tragicamente vero.
L’emergenza è ciò che da sempre offre l’alibi per eludere la responsabilità civile della normalità. L’emergenza giustifica deroghe, decisioni del caso per caso, “doppi binari”, sanatorie e condoni come unica risposta al caos generato.
E fa fiorire carriere.
L’invocazione dell’emergenza, molto prima e molto più ingiustificatamente di adesso, anzi spesso del tutto ingiustificatamente, è stato il lasciapassare per l’autoassoluzione di tutte le classi dirigenti. L’emergenza offre sempre un’altra chance di salvezza e dissolve la responsabilità del proprio operato.
Complice la sistematica propalazione del terrore per l’ordine - il quale non consente autoassoluzioni, ma semmai certezza - la nostra cultura giuridica si è specializzata nell’apologia dell’eccezione, della deroga, del cavillo. Lo sanno persino i bambini che, da che mondo è mondo, nell’eccezione, nella deroga e nel cavillo si annida l’abuso e il compiacimento del potere di chi può agire indisturbato nell’arbitrio. L’idealtipo di don Rodrigo è una tentazione strisciante e costante. E in Italia, per molti, troppi, l’unico modo di cui liberarsene è stato cedervi ( O. Wilde). Autoassolvendosi in diretta. Perfino la giustizia, calata nel caos, diviene ingiustizia, perché finisce per colpire a casaccio.
Questo sguazzare nell’emergenza da sempre, è stato tristemente tollerabile sino ad oggi perché a farne le spese sono state, di volta in volta, minoranze o individui diversi, senza che potesse mai svilupparsi una coscienza collettiva dei suoi costi sociali. Il divide et impera: l’eccezione che divide e l’arbitrio che impera.
Del resto lo diceva già Costantino Mortati in Assemblea costituente: “Di tutti i decreti- legge che la storia parlamentare ricorda, solo una percentuale minima è giustificata dall’urgenza; in tutti gli altri casi questo è un pretesto che il Governo, e per esso la burocrazia, usa per decretare a sua volontà”.
Ed ecco che la pandemia ha portato tutti i nodi al pettine. L’emergenza non è più il divertente gioco retorico del governare. È una tragica e collettiva esperienza destinata a produrre caos in modo esponenziale. Sulla fertile base della nostra assuefazione centenaria al disordine.
Adesso il disordine ci ha portato il conto. Ed è un conto salato. E allora, anche in vista della fase 2 e ciò che ne seguirà, forse è venuto il momento di dire basta. Basta alla cultura da azzeccagarbugli, dei mezzucci e dei pretesti per aggirare, derogare, confondere. È venuto il momento di costruire una cultura dell’ordine e delle sue virtù civili. Se questa nuova consapevolezza si facesse strada, se essa fosse anche l’unico lascito di questa immane tragedia, forse, e dico rispettosamente forse, tante migliaia di italiani non sarebbero morti del tutto invano.