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La crisi della Banca Popolare di Bari, primo gruppo creditizio del Mezzogiorno, la storica evoluzione della condizione delle regioni meridionali, le vicende dell’intervento ordinario o straordinario nel Sud: sono tutti temi che si intrecciano fortemente. Il Mezzogiorno, l’insieme delle regioni meridionali del Regno e poi della Repubblica Italiana, vive da sempre una condizione di debolezza economica e subalternità sociale. L’Italia come realtà politica e sociale ha una natura estremamente frammentata: particolarismi e municipalismi la dominano incontrastati.
C’è una frattura, allo stesso tempo territoriale e sociale, che la attraversa. Riguarda i suoi storici “modi di produzione” agrari: al Nord c’era l’affittanza capitalistica, che farà da humus fertilissimo all’industria moderna e alla relativa borghesia imprenditoriale; nelle regioni appenniniche del Centro, vigeva la mezzadria, organizzazione sociale molto peculiare che suddivideva fra proprietà agraria e contadini la gestione imprenditoriale della terra; al Sud infine imperava incontrastato il latifondo fondiario.
Tutta la vita sociale, economica e pubblica delle regioni meridionali erano condizionate dagli interessi o dalla logica del latifondo. Esso impediva o rendeva difficilissimo qualsiasi sviluppo capitalistico basato su mercato e concorrenza. La “questione meridionale” italiana trova in questo particolarissimo e difficilissimo assetto produttivo alcune importanti ragioni di involuzione. La classe dirigente del Sud è sempre stata afflitta da logiche e culture in qualche modo collegate al mondo del latifondo e della sua gestione sociale: quella classe dirigente ha trovato molto spesso un suo posto in funzione degli interessi economici del Nord. Ciò ha quasi sempre creato un assetto sociale molto poco consono ad uno Stato europeo moderno ed efficiente.
Insomma mettere assieme queste tre diverse, contraddittorie, contrastanti Italie non è mai stato facile: solamente la Democrazia Cristiana forse c’è riuscita per un tempo decentemente lungo e in modo decentemente proficuo. Ciò è successo grazie anche al sua legame storico con un quarto “modo di produzione” agrario che intersecava i tre precedenti: la piccola proprietà diretto- coltivatrice. La piccola borghesia rurale fu, fin dalla fine della seconda guerra mondiale con la riforma agraria fortissimamente voluta dalla classe politica dell’epoca, un pilastro centrale del blocco sociale democristiano. Con i suoi indubbi vantaggi, la stabilizzazione politica del Paese e la crescita civile di un intero mondo rurale fino al allora subordinato e senza diritti, ma anche con i suoi punti critici, il ruolo pesantissimo di FederConsorzi.
Ritorniamo alla Popolare di Bari. La Puglia, tra le regioni e i territori meridionali, spicca per una sua caratteristica particolare: la ricchezza e la diversità del suo tessuto imprenditoriale. La Puglia infatti da una parte ha lo storico retaggio strutturale del Mezzogiorno e dall’altra parte è una porzione non secondaria dell’asse adriatico.
Negli anni Ottanta, in Italia ha preso piede un modello capitalistico figlio legittimo della storia economica particolarissima del nostro paese, il capitalismo dei distretti, la cosiddetta “Terza Italia”, ovvero l’Italia che stava in mezzo fra quella della grande industria capitalistica del Nord Ovest e quella dell’arretratezza quasi precapitalistica del Sud. Piccole e medie imprese manifatturiere, organizzate creativamente in distretti territoriali relativamente omogenei, caratterizzati da una fortissima presenza politica locale e dalle relative banche regionali di supporto, hanno iniziato a dominare una economia nazionale che vedeva spegnersi, una ad una, le storiche esperienze del grande capitale industriale, dall’Olivetti in giù. La struttura capitalistica che tuttora domina il nostro paese prende forma a quel tempo.
La struttura capitalistica la cui crisi imprenditoriale oggi trascina con sé banche regionali, risparmiatori, azionisti o correntisti nasce allora. Si potrebbe osservare che l’incapacità o l’insufficienza di quel tessuto capitalistico ad adattarsi alla globalizzazione degli anni Novanta e poi alla frusta della Grande crisi del duemila, è a fondamento anche delle crisi bancarie di questi anni. Prima tra Toscana, Emilia, Marche, Liguria, le regioni centrali dell’Appennino, poi in Veneto, la roccaforte di Nord Est del capitalismo dei distretti, ora nel Mezzogiorno, storicamente più debole ma comunque fortemente connesso con quella struttura capitalistica. Ovviamente la storia dell’evoluzione e dell’involuzione di questo modello economico è lunga e complicata. La Puglia assieme al Veneto, passando per le Marche, gli Abruzzi, fa parte di questa storia. La crisi si potrebbe dire non poteva non investire anche il più importante istituto di credito della Puglia e di tutto il Sud, appunto la Popolare di Bari.
Facciamo un po’ di storia: la Banca Popolare di Bari nasce nel 1960. Ha una forte diffusione nel territorio, anche grazie ad una politica molto audace di espansione e di assorbimenti: Banca Popolare delle penisola sorrentina, Banca Popolare di Calabria, Nuova Banca Mediterranea, sono fra le sue principali acquisizioni. Nel 1998, dopo un’altra serie di conquiste sul campo, nasce il Gruppo creditizio Banca Popolare di Bari. La Banca si fa gruppo.
Fin dalla sua fondazione, l’istituto è stato guidato da un esponente della famiglia Jacobini, la cui importanza quindi non può essere in alcun modo sottovalutata. Il dominio della famiglia è durato fino all’ottobre del 2018.
Nel 2014, la Popolare di Bari acquista la Banca Tercas: è una acquisizione che farà discutere e che verrà molto criticata. La Procura della Repubblica di Bari, proprio per alcune segnalazioni su quella operazione, tra il 2016 e il 2017 aprirà una sua indagine. Nel luglio del 2019, l’era del controllo diretto della famiglia Jacopini arriva al termine, anche se ovviamente la sua influenza rimane consistente. Vincenzo De Bustis, in quell’occasione, viene invece riconfermato come amministratore delegato. Ma nel dicembre scorso, la Banca d’Italia decide il commissariamento dell’istituto. Siamo all’oggi.
La condizione della Popolare di Bari è illustrata adeguatamente dal documento del Servizio Studi del Senato, a corredo dei provvedimenti governativi. Scrivono i funzionari del Senato: ‘’ La BPB è caratterizzata da una quota di mercato significativa in Puglia, Basilicata e Abruzzo. I suoi clienti sono poco meno di 600.000, dei quali più di un se- sto sono imprese, che rappresentano il 60 per cento degli impieghi dell'intermediario ( circa 6 miliardi di euro). I depositi ammontano a 8 miliardi di euro, di cui 4,5 di valore unitario inferiore a 100.000 euro e, quindi, garantiti dal Fondo interbancario di tutela dei depositi.
Le azioni emesse da BPB sono ampiamente diffuse fra il pubblico dei risparmiatori: il numero dei soci è pari a circa 70.000, con una partecipazione media pari a 2.500 azioni, per la quale risulta complesso fornire una valutazione. Il prezzo unitario dei titoli ( che per le banche popolari viene fissato dall'assemblea) è stato ridotto in occasione dell'approvazione del bilancio 2015 della banca da 9,53 a 7,5 euro. Tale scelta ha contribuito a determinare un significativo squilibrio fra le richieste di vendita e quelle di acquisto, costringendo a sospendere l'attività interna di incrocio degli ordini dei clienti che la banca offriva fra i suoi servizi esecutivi, anche al fine di mitigare il rischio di liquidità naturalmente connesso al possesso di azioni non negoziate su mercati regolamentati.
Al 31 dicembre 2016 gli ordini di vendita riguardavano 38,9 milioni di azioni, pari a un quarto del capitale sociale. A partire dal 30 giugno 2017 le azioni della BPB sono state ammesse alla negoziazione sul sistema multilaterale Hi- MTF, dove si è riprodotta la situazione di sostanziale squilibrio fra gli ordini in acquisto e vendita, da cui è dipesa la conclusione di un ridotto numero di transazioni e una significativa riduzione del prezzo del titolo. L'ultimo contratto concluso il 22 novembre u. s. ha fatto registrare un prezzo pari a 2,38 euro’’. L’esplosione della crisi della banca è perfettamente descritta dall’’ evoluzione’ del prezzo del suo titolo!
Continuano i funzionari del Senato: “I documenti contabili della BPB mostrano elementi di debolezza sia patrimoniale che economica. I crediti deteriorati sono passati dal 12,6 per cento dei crediti in portafoglio, registrato nel 2011, al 27,7 per cento del 2015. Il dato al 30 giugno 2019, pur segnando una riduzione al 22,9 per cento, indica il permanere di elementi di criticità relativi alla qualità dei crediti erogati. Allo stesso tempo, dopo il 2014 la BPB ha registrato una redditività nulla o negativa.
L'utile netto in rapporto ai mezzi propri della banca è stato pari a - 31 per cento nel 2015, 0,7 per cento nel 2016, 0,2 per cento nel 2017, - 63 per cento nel 2018 e - 16 per cento a giugno 2019. In ragione di tali andamenti, e in mancanza di sufficienti interventi in grado di aumentare il capitale stabile a disposizione della banca, i coefficienti patrimoniali hanno registrato una significativa e costante riduzione a partire dal dicembre 2014. In particolare, il patrimonio di migliore qualità è passato dall' 11 per cento delle attività ponderate per il rischio al 6,2 per cento.
Tale valore rappresenta uno dei principali indici di adeguatezza patrimoniale che, nella logica dell'approccio prudenziale alla vigilanza bancaria, deve permanere al di sopra di specifici livelli fissati dalle autorità per garantire la possibilità di assorbire le perdite in condizioni di continuità aziendale. Per contro, l'emersione di gravi perdite patrimoniali costituisce uno dei presupposti per lo scioglimento degli organi con funzioni amministrative e di controllo delle banche e la conseguente sottoposizione al regime di amministrazione straordinaria disciplinato dagli articoli 70 e 98 del decreto legislativo n. 385 del 1993’’.
L’intervento della Banca centrale dunque appare indispensabile: è utile ricordare che per gli istituti del livello della Popolare di Bari, l’istituzione di vigilanza è rimasta la Banca centrale nazionale, non è diventata l’istituzione europea.
Per “salvare” la banca è stato costretto ad intervenire il governo. L’istituto che doveva diventare il polo di aggregazione delle banche meridionali rimaste per farne lo strumento di sostegno al tessuto imprenditoriale locale, si è trasformato rapidamente nell’epicentro di una drammatica crisi economica e sociale. La Popolare di Bari ha circa 70mila soci, ovvero azionisti, 3200 dipendenti e 368 sportelli. Si tratta quindi di una realtà finanziaria fondamentale per quel territorio. La sua crisi rappresenta un colpo gravissimo al tessuto economico e civile di una intera regione già duramente provata dalla situazione dell’ex Ilva di Taranto. La questione quindi non è solamente di carattere finanziario o patrimoniale, ma assume un indubbio rilievo sociale.
Il governo, tra discussioni e conflitti, interviene con un provvedimento intitolato, “Misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento”. La maggioranza politica che guida il Paese intende con questo intervento non semplicemente salvare la banca, con il ruolo del MedioCredito Centrale e mediante l’azione del Fondo interbancario, ma vorrebbe anche mettere le basi di uno strumento di sostegno all’economia del Sud, una banca di investimento pubblica.
Questa intenzione è però tutt’altro che nuova: da tempo si parla ad intermittenza di una Banca di investimento per il Sud. Si potrebbe dire che se ne parla da quando è terminata l’esperienza, complessivamente favorevole, della CasMez, la Cassa del Mezzogiorno, il cosiddetto “intervento straordinario”. Se ne parla moltissimo ma se ne parla solo. Anzi la storia prende sempre strade un po’ strane.
L’Isveimer, Istituto per lo sviluppo economico dell’Italia meridionale, era un istituto di finanziamento per le piccole e medie imprese del meridione. Aveva, si potrebbe dire, il compito che dovrebbe avere una ipotetica nuova Banca di investimento per il Sud di oggi. Non solo: Isveimer era uno dei 19 Medio Credito all’epoca funzionanti in Italia. L’istituto era di proprietà del Banco di Napoli. Nel 1996 esso fu liquidato.
Si vuole ricreare l’Isveimer, guarda caso, con l’intervento del Medio Credito Centrale? Sarebbe una “‘ astuzia della storia”.
Il fatto è che creare, organizzare, far funzionare bene una banca di investimenti pubblica non è una cosa semplicissima. Lo spiega, in una intervista a Radio radicale, Natale d’Amico, ex alto dirigente della Banca d’Italia, che si occupò a suo tempo direttamente proprio della liquidazione di Isveimer. «Ci dovrebbe far inorridire l’idea di una banca di investimenti pubblica che, è bene sempre averlo in testa, sarà finanziata dal contribuente», dice subito. «Un tale istituto pubblico altera il meccanismo del mercato, quello dei prezzi. In tal modo, per dirla semplicemente, si mettono le scelte di investimento alle imprese nelle mani della politica.
Non mi pare un grande scopo, si tratta alla fine fine di “economia di Stato”, e sappiamo bene come questa “economia di Stato” sia inefficiente». «Si dice che si vuole intervenire non per aiutare i depositanti ma per rifare una banca pubblica di investimenti! Sarebbe un ritorno indietro di trenta- quaranta anni», conclude.
L’ex alto dirigente della Banca centrale ci pare forse un po’ ideologico: è assai probabile che quel “capitalismo dei distretti” ha bisogno anche in Puglia di importanti strumenti di sostegno al tessuto imprenditoriale, ma siamo sicuri che una banca di investimenti pubblici creata senza una adeguata preparazione sia la soluzione migliore? La Popolare di Bari, ci dice un economista, il professor Mario Baldassarri, nella conversazione periodica che tiene con noi a Radio radicale, alla fin fine risente sia dei “crediti ad amici” sia della condizione di crisi di un intero sistema imprenditoriale. Una banca pubblica di investimento, nella attuale congiuntura politica, darebbe più crediti agli “amici” o sosterebbe davvero il tessuto imprenditoriale sano?