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Le recenti vicende che hanno portato all’approvazione, in sede europea, di un ingente piano di aiuti da destinare ai paesi più colpiti dall’epidemia, e in particolare al nostro, sono state oggetto di interpretazioni differenti e divergenti tra le forze politiche italiane, ma nel complesso hanno avuto un’accoglienza favorevole da parte dei commentatori e degli studiosi.
È convinzione diffusa, infatti, che l’Italia si troverebbe ad affrontare una situazione insostenibile, nel breve- medio periodo, senza un forte sostegno esterno; ed è naturale che questo sostegno debba innanzitutto essere ricercato nel quadro europeo.
Ciò assodato, si può discutere, e si discute, sulle condizioni alle quali il suddetto sostegno viene accordato; ma raramente si approfondisce l’analisi sul significato di questa operazione dal punto di vista del suo impatto politico, ossia della posizione del nostro paese nella struttura di potere dell’Unione. A questo riguardo, alcune premesse del ragionamento possono essere considerate non controverse.
La coppia di crisi devastanti che ha investito il continente a partire dal 2008 ha smascherato la fragile struttura dell’Unione, riducendo i poteri della Commissione – il presunto “esecutivo” europeo – alla gestione degli affari di routine, e rimettendo al Consiglio – cioè agli stati membri – le scelte cruciali. In questo modo, l’istituzione da cui ci si poteva attendere – insieme al parlamento di Strasburgo – la capacità di esprimere un barlume di “interesse europeo” è stata sostanzialmente esautorata, mentre nel Consiglio sono presto emerse linee di divisione plurime create e alimentate dai differenti interessi nazionali.
Tuttavia questi interessi, per essere efficacemente difesi e affermati, devono essere resi compatibili con il livello comunque significativo di integrazione raggiunto dalla costruzione comunitaria ( di cui l’area Euro costituisce l’espressione più incisiva), ricevendone qualche inevitabile limitazione. Di qui l’impegno di alcuni degli stati guida dell’Unione nella messa a punto e nell’adozione del Recovery Plan.
In questo quadro, la struttura di potere dell’Unione è meglio interpretata con i criteri che si applicano alle relazioni internazionali, sia pure con qualche correttivo.
Nella fattispecie, essa appare soggetta a un incessante bilanciamento che riflette gli equilibri mutevoli nei rapporti di forza tra le diverse unità membre e nelle loro alleanze più o meno stabili: e questi rapporti a loro volta dipendono dalla capacità di mettere in campo risorse materiali e ideali, di assumere ruoli di leadership e di esercitarli con efficacia, e di comporre e “universalizzare” gli interessi di parte nei termini di un “bene comune”.
È ovvio che gli stati membri, pur tutti avviluppati in una rete di interdipendenze, non dispongano di analoghe capacità, e dunque non si trovino affatto su posizioni di eguaglianza, nonostante la parità formale sancita dai Trattati. Nella struttura di potere dell’Unione ci sono alcuni stati più potenti e meno dipendenti, e altri meno potenti e più dipendenti.
Ora, se ci si chiede a quale dei due gruppi appartenga oggi il nostro paese, non credo che sorgerebbero dubbi sulla collocazione. L’Italia è un membro dell’Unione che, ad onta delle sue dimensioni demografiche, delle sue risorse materiali e culturali, della sua posizione geografica strategica e della sua storia, conta poco e deve chiedere molto: nelle catene dell’interdipendenza, il nostro paese accusa una marcata dipendenza.
È tuttavia opportuno tener conto del fatto che l’attuale debolezza dell’Italia nel quadro europeo non è generata dalla vicenda del Recovery Plan, ma ne è solo pienamente disvelata e accentuata. Essa risale ai decenni addietro, e specialmente al ventennio successivo alla crisi di Tangentopoli, in cui le maggioranze e i governi di centro- destra e di centro- sinistra, guidati entrambi da leadership non all’altezza della sfida, non hanno saputo porre freni a un processo di de- istituzionalizzazione devastante le cui conseguenze politiche, sociali, economiche e morali sono sotto gli occhi di tutti, e hanno ulteriormente compromesso la credibilità dell’Italia in Europa e nel mondo.
Questo stato di cose, se da un lato induce a considerare fuori luogo per mancanza di realismo le aspre critiche che da qualche parte si sono levate contro l’accordo europeo, dall’altro lato rende stupefacenti gli entusiasmi che l’hanno salutato. Dovremmo esultare per essere stati costretti ad andare con il cappello in mano a chiedere aiuto, e avere infine ottenuto la grazia?
Bisogna essere per forza ottusi nazionalisti per aver provato umiliazione, se non di fronte alla compiacenza caritatevole ( ancorché interessata) di alcuni partner, quantomeno al cospetto dei diktat del premier olandese e dei suoi alleati? E quanto tempo dovrà ancora passare perché si riconosca che un termine come “solidarietà”, che designa un concetto etico e un’esperienza morale, può essere applicato con perspicuità ai rapporti tra le persone, mentre non ha alcun senso, se non quello mistificante, quando viene riferito alle relazioni tra soggetti collettivi, siano essi gruppi, comunità o stati? Tutto ciò, naturalmente, rischia di passare inosservato di fronte all’opportunità che ci si presenta di affrontare i prossimi mesi e anni senza l’incubo della bancarotta dietro l’angolo. Ed è anche giusto che si escogitino tutte le misure necessarie a sfruttare al meglio il sostegno che ci apprestiamo a ricevere, intervenendo nei settori che più ne hanno bisogno.
Ma se c’è un obiettivo prioritario, che una classe politica e dirigente seria e competente dovrebbe porre a se stessa, questo è di carattere politico. Se vuole davvero dare un contributo importante al futuro dell’Europa, oltre che al proprio, l’Italia deve ridurre progressivamente la propria dipendenza nei confronti degli altri paesi dell’Unione, cioè deve recuperare potere e prestigio. E questo è un obiettivo che, a differenza degli altri, non incontrerà prevedibilmente l’approvazione degli altri Paesi, e in particolare di quelli che in questa fase occupano una posizione preminente nella struttura di potere del continente.
D’altra parte, non è nemmeno un obiettivo al perseguimento del quale i finanziamenti europei possano apportare un contributo apprezzabile. Il primo passo in questa direzione dovrebbe infatti consistere nel conseguimento di un livello accettabile di stabilità politico- istituzionale: e questa non è la conseguenza, ma la precondizione – una delle precondizioni – di un impiego ragionevole ed efficace delle risorse provenienti dall’Europa. Sfortunatamente, non ci sono segnali che inducano a essere ottimisti.
* ordinario di Scienza Politica Università di Pavia. Direttore dei Quaderni di Scienza Politica