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«Nessun’altra forza politica lo fa, siamo gli unici che si tagliano stipendio e anche da forza di opposizione creiamo lavoro, imprese, ricchezza». Quante volte i grillini avranno ripetuto questa frase dal 2013 a oggi? Difficile riuscire a contarle, e sarebbe troppo facile ironizzare adesso – dopo lo scandalo sui finti rimborsi – su questo mantra diventato marchio di fabbrica del partito pentastellato. Il vero problema dello slogan più caro al grillismo è che racconta il falso. Il Movimento 5 Stelle non è affatto l’unico gruppo parlamentare a creare lavoro attraverso l’autotassazione. Quasi tutti i gruppi parlamentari impongono ai loro componenti di versare alle casse comuni una quota considerevole per consentire alla macchina organizzativa, fatta di persone e di stipendi da pagare, di poter funzionare. A meno che non si ritenga che degli organismi complessi come i partiti - composti da funzionari, amministrativi, consulenti, sedi e bollette a fine mese - si nutrano d’aria. Perché con l’abolizione del finanziamento pubblico, le forze politiche campano solo grazie all’autotassazione e al due per mille, oltre a una quota proveniente da donazioni private. Risultato: rosso fisso nei conti. Per pagare i dipendenti, e quindi per creare lavoro, non resta che chiedere agli eletti uno sforzo di generosità. Per i partiti della sinistra è così dalla notte dei tempi, dal Pci in poi, ma è un’abitudine che ormai investe quasi tutto l’arco parlamentare.Il gruppo più “tassato”, ben oltre la quota fissa richiesta ai grillini (poco più di 2 mila euro mensili) è quello di Sinistra italiana. Gli ex vendoliani versano nelle casse del partito il 70 per cento dell’indennità netta, pari a 3.500 euro al mese. L’obolo dovuto è normato dallo statuto e «serve a pagare i sei dipendenti fissi, più vari contratti di collaborazione», spiega il tesoriere Giovanni Paglia. I soldi però non vengono assorbiti totalmente dalla voce “dipendenti”. Da qualche anno Sinistra italiana è promotrice di “Forza”, un programma che sviluppa e finanzia progetti sociali innovativi, senza finalità di lucro. «Forza ha due obiettivi: cambiare la politica per trasformare la società. E si rivolge ad associazioni, cooperative, gruppi informali che abbiamo un progetto di cambiamento e di volontariato da realizzare», spiega Paglia. Nel 2017 sono state premiate due «start-up», con 20 mila euro a testa a fondo perduto, per realizzare un campeggio ecosostenibile nelle zone terremotate e un banco di mutuo soccorso nelle periferie romane. Altri venti progetti «grazie a un finanziamento di 3 mila euro potranno costruire più piccole ma non meno importanti esperienze di mutualismo locale che abbracciano molti temi diversi, da quello dell’immigrazione a quello della differenza di genere, dai temi ambientali fino al grande problema dell’accesso alle cure ai farmaci», si legge sul sito del partito.Ma gli ex vendoliani non sono gli unici a “pagare pegno”. I parlamentari del Pd versano mediamente 1.500 euro al mese. Anche in questo caso i versamenti sono regolamentati dallo statuto che all’articolo 22 recita: «Gli eletti hanno il dovere di contribuire al finanziamento del partito versando alla tesoreria una quota dell’indennità e degli emolumenti derivanti dalla carica ricoperta. Il mancato o incompleto versamento del contributo è causa di incandidabilità a qualsiasi altra carica istituzionale». E all’articolo 24: «Sono destinati alle articolazioni territoriali i contributi degli eletti nelle Amministrazioni locali». Senza questi contributi il partito non potrebbe esistere. Basti ricordare la recente polemica tra il tesoriere Francesco Bonifazi e il leader di Leu Piero Grasso, in cui l’esponente dem ricordava al presidente del Senato le quote da saldare: quasi 83 mila euro, denaro indispensabile a foraggiare un fondo di garanzia a sostegno di 180 dipendenti in cassa integrazione. E i fuoriusciti di Mdp, creando un nuovo gruppo parlamentare, non hanno fatto altro che riprodurre altrove la tradizione consolidata: 1.500 euro mensili a parlamentare, necessari per l’esistenza stessa del partito.Ma l’autotassazione non ha un colore politico specifico. Contributi più o meno volontari sono richiesti anche agli eletti nelle forze del centrodestra. In questa parte del campo la palma d’oro spetta alla Lega, il partito più strutturato sul territorio. Ogni parlamentare versa circa 2 mila euro al mese. La crisi economica della politica però non conosce confini. E persino il gruppo fondato da uno dei più ricchi industriali del Paese non naviga affatto in buone acque. È così che anche gli eletti di Forza Italia devono decurtarsi lo stipendio per non dichiarare bancarotta. Le cifre sono molto più contenute rispetto agli altri partiti, circa 800 euro a testa, a cui però bisogna aggiungere i 25 mila euro (una tantum) che deputati e senatori sarebbero obbligati a “donare” al momento dell’elezione.Checché ne dicano i 5 Stelle, non sono affatto l’unico movimento a creare ricchezza. Ogni lavoratore stipendiato coi soldi delle autotassazioni vale quanto un assunto da una piccola e media impresa. Perché fare politica senza risorse non è solo una chimera, è anche pericoloso.