Il successo elettorale di Donald Trump deriva da un consenso cercato – e ottenuto - in ogni angolo degli Stati Uniti, parlando ai cittadini di tutte le generazioni e di tutte le classi sociali. «Quella di Trump – dice il senatore Giulio Terzi (FdI) – è una vittoria incontestabile, con 312 grandi elettori, ben sopra la soglia dei 270, e con un voto popolare oltre il 50%».

Senatore Terzi, l’America ha scelto Donald Trump. Il ritorno alla Casa Bianca del tycoon non era scontato?

Come accade in Italia e in Europa, anche negli Stati Uniti spesso la sinistra pecca di arroganza, non dimentichiamo il triste appellativo “garbage” affibbiato agli elettori repubblicani, tende a demonizzare l’avversario e far prevalere, nella comunicazione, l’idea del “voto contro”. Il voto si conquista comprendendo il sentimento nazionale, non demonizzando l’avversario. L’accanimento sulla figura di Donald Trump, penso alla serie di vicende giudiziarie con capi di accusa per asseriti reati politici e privati e all’attentato dello scorso luglio, ha di fatto sfavorito i democratici. Trump ha saputo parlare al popolo americano, alle diverse generazioni, catalizzando in particolar modo l’elettorato under 30. La sua è una vittoria incontestabile, si appresta a vincere con 312 grandi elettori, ben sopra la soglia dei 270, e con un voto popolare oltre il 50%.

È la dimostrazione della solidità della democrazia americana?

Certo, nonostante gli allarmismi o i toni accesi della campagna elettorale, il voto è avvenuto in piena correttezza e rispetto istituzionale. Non si è mai attenuata in me la fiducia nel modello democratico degli Stati Uniti, nemmeno a fronte dei disordini del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill.

I repubblicani hanno infranto anche la barriera blu del Midwest, punto di forza democratico, e molti degli Swing States, anche quelli tradizionalmente più verso sinistra, hanno virato a destra. Un segnale importante?

Manovali, minoranze, imprenditori hanno sostenuto Trump. Alle persone comuni, che lavorano, hanno una famiglia e i normali problemi quotidiani, non interessano gli endorsment di Taylor Swift o il mainstream hollywoodiano che a parole promuove i grandi valori democratici di uguaglianza e solidarietà ma poi si rivela essere l’establishment. Il popolo è pragmatico, realista. Trump ha sconfitto le pulsioni relativiste, revisioniste della storia statunitense, quei movimenti cancel culture, woke, politically correct, l’iper-progressismo su temi sociali sensibili, dal gender all’ambiente. Ha riportato sulla scena una politica più identitaria in senso conservatore. Il futuro vicepresidente Vance, nel suo bestseller “Elegia americana”, aveva descritto con grande efficacia sia le diverse facce del “razzismo”, non soltanto etnico, ma anche socioeconomico e culturale, in particolare nei confronti della classe bianca più povera, a suo giudizio troppo tollerato dall’élite democratica, sia la voglia di riscatto del popolo che ancora crede nell’American Dream, perché è l’identità ad attestare la dignità e il valore delle persone. Nel raccontare le sue radici in una zona depressa dell’America, Vance aveva già ampiamente spiegato il successo trumpiano.

A fronte dei tanti scenari di crisi globali, come cambierà adesso la politica estera degli Stati Uniti?

Non abbiamo la sfera di cristallo, molto lo si può intuire da quanto fatto in precedenza e dalle recenti dichiarazioni dei tanti leader del mondo. In Medio Oriente gli Stati Uniti si riconfermano sostenitori di Israele, della sua esistenza quale Nazione, e alleati contro il terrorismo fondamentalista a cui, con i suoi proxy, fa capo l’Iran. Pare che Mike Pompeo, già Segretario di Stato, andrà alla Difesa. Le sue posizioni sono note: dalla campagna di forte pressione su Teheran attraverso sanzioni e l’uscita dall’accordo nucleare all’ottimo rapporto con le forze di opposizione iraniane. Il rafforzamento degli Accordi di Abramo, strumento stabilizzatore della regione e di contenimento dell’Iran, sarà cruciale. Sul fronte dell’Indo-Pacifico, in opposizione alle politiche di Pechino, si presuppone una ulteriore crescita dei rapporti diplomatici e militari con i Paesi tradizionalmente alleati dall’Australia al Giappone e Vietnam. Infine, sul fronte più vicino a noi europei, quello ucraino, credo sia necessario dare credibilità alle parole del presidente ucraino Zelensky, che ribadiscono l’apprezzamento verso l’approccio di Trump di una “pace tramite la forza”.

Sul piano economico, invece, alcuni osservatori sostengono “America first is not America alone”, per evidenziare che l’etichetta isolazionista è una chiave di lettura limitata. Cosa ne pensa?

Non posso che sottolineare le parole del presidente Giorgia Meloni nel suo messaggio, appena appresi i risultati del voto: «Italia e Stati Uniti sono Nazioni sorelle, legate da un’alleanza incrollabile, valori comuni e una storica amicizia». Sono certo che il legame strategico Roma-Washington continuerà a rafforzarsi ancora di più. Trump vuole invertire quel processo di desertificazione ad opera della Cina dei mercati occidentali che ha sollevato questioni di sicurezza nazionale, problematiche sociali vaste e ritorsioni. Le tariffe sugli import vanno lette in questo senso, come un incentivo alla produzione nazionale, ad una maggior indipendenza economica. Anche la presidenza Biden, del resto, ha applicato i dazi sulle auto elettriche importate dalla Cina. La presenza nell’entourage di Trump di imprenditori come Musk e Bezos ha influito sulla fiducia della Borsa americana. Più del 40% della popolazione statunitense detiene stocks nazionali. Un clima incerto si è riflesso invece sulle borse europee, ma le aspettative dovrebbero esser positive soprattutto perché i rapporti tra Stati Uniti e UE sono profondi. Se è vero che l’interscambio Italia-Usa ha un attivo di 40 miliardi, la vasta rete di collaborazioni e investimenti non può che essere uno straordinario volano. L’Italia è la voce più autorevole dentro l’Unione europea che può riconfermare l’unitarietà che caratterizza l’approccio euroatlantico, sia nelle questioni economiche che politiche. L’essere un collante è un privilegio ma anche una responsabilità.

In questo contesto un ruolo molto importante lo svolge la difesa. Servono maggiori sforzi?

L’Italia ha più volte ribadito l’impegno a raggiungere l’investimento del 2% del PIL in difesa e in Europa è sempre più considerata l’idea di escludere dal Patto di Stabilità le spese militari. Oggi urge costruire un vero, integrato e al tempo stesso autonomo, pilastro europeo nella Nato. È indubbio che riequilibrare il contributo di risorse che l’Europa dà all’Alleanza Atlantica rappresenta un primo cruciale passo.