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Il tempo che viviamo, senza dubbio terribile sia nella sua attualità sia nelle incertezze del futuro, tuttavia contiene una serie di opportunità che sarebbe ancor più grave, sul piano storico, non cogliere ed utilizzare. Ma perché ciò abbia luogo è indispensabile saper leggere i “segni” del tempo e, soprattutto, muovere dalla consapevolezza della situazione e della sua epocalità. Eppure pare che questa difficile ma ineludibile opera non sia affatto iniziata. Prendiamo la consapevolezza: mostra di non averne molta chi continua a proporre il paragone con il secondo dopoguerra; le affinità sono davvero poche. Non si può certo raffrontare l’odierna stagione con una società che aveva fatto i conti con l’incubo della fame, che aveva consuetudine con la morte, che era assuefatta al sacrificio; agli italiani – tra l’altro dopo il decennio della Ricostruzione ed una cospicua messe di aiuti americani- dovette sembrare un paradiso già la sola disponibilità di un’abitazione con bagno interno, la possibilità di un lavoro, anche se conquistato pagando il prezzo dello sradicamento sociale e culturale, ed addirittura la prima autovettura e le vacanze estive. Tra l’altro, era una società che godeva ancora delle consolidate certezze di valori e paradigmi delle generazioni anteriori, mentre la ricerca di nuove strade, di cui il ’ 68 fu effetto, era pur sempre mossa da orizzonti culturali tendenzialmente “ideologici”, ovvero connessi ad una visione complessiva e di sistema. Né di maggiore pertinenza pare il riferimento alla crisi del 2008, che come è noto, pur con rilevantissime conseguenze sociali ( si pensi alla catena di suicidi di imprenditori), fu sostanzialmente una crisi finanziaria, certamente globale, ma non con i caratteri della pervasività generale che presenta quella in corso. Dunque occorre essere consapevoli della gravità e, per alcuni versi, della novità del momento che attraversiamo. Invece si ha la sensazione che il deficit di consapevolezza, unitamente alla concitazione delle situazioni, stia guidando scelte istintive, destinate ad aumentare la “tossicità” del contesto attuale e soprattutto futuro. Di ciò è riflesso esatto l’approccio europeo; si guarda all’attualità senza rendersi conto che la crisi che l’Unione vive è il risultato di un processo storico consumato per tappe e che, d’altro canto, non è in discussione il solo meccanismo di aiuto all’Italia ( eurobond o MES): non è questione di formule ma di identità e sopravvivenza stessa del progetto europeo. Eppure siamo a questo punto non per caso; dal fallimento dei referendum per l’approvazione della cosiddetta “Costituzione europea” in avanti si sarebbe dovuto comprendere che altro esito non ci sarebbe stato. L’unificazione europea aveva raggiunto il punto limite consentito dal metodo gradualista e funzionalista; la scelta del processo per step, che dal Trattato di Roma in poi ha accompagnato l’unificazione, ha avuto successo; è ingeneroso sostenere che abbiamo avuto decenni di Europa dei “mercanti”. E’ sotto gli occhi di tutti che, per quanto con lo strumento dei trattati e con il filtro del modello del mercato, cinquant’anni di unificazione hanno consentito l’emersione di nuovi diritti fondamentali ed hanno fatto pervenire alla piattaforma di valori e principi contenuti nella Carta di Nizza. Perduta l’occasione della vera costituzionalizzazione, era prevedibile che, in particolare dopo la moneta unica, il “re sarebbe apparso prima o poi nudo”. Ed oggi la pandemia sta mostrando la nudità di un’Europa che determina la gran parte delle scelte dei singoli Stati , influenza, sebbene attraverso la leva finanziaria, i destini dei popoli, concorre alla legislazione interna – soprattutto nei rapporti economici- in maniera quasi prevalente, ma non è sorretta da una bagaglio di opzioni valoriali condivise e da una legittimazione democratica.
Se si comprende che questa, come ogni crisi, nel suo senso etimologico, può costituire una grande opportunità di progresso, l’unica destinazione possibile, se vi si crede ancora, sono gli Stati Uniti d’Europa. Ma non è quanto emerge dalla contraddittorietà delle politiche degli Stati membri, che ora rivendicano appartenenza europea, ora – penso alla Germania ed alla sua partnership con la Cina- praticano scelte uni o multilaterali. Perché il quadro che ci attende è incompatibile con le ambiguità che abbiamo vissuto sin qui? Semplicemente perché tra non molto farà irruzione la storia nella sua quotidianità, nella sua durezza e crudezza. In questi giorni un imprenditore mi illustrava – ovviamente, preoccupato – la sua situazione: vive di anticipazione bancaria e le banche gli hanno comunicato che non sconteranno più fatture che non siano del settore food dopo la decretazione di urgenza di questi giorni. In altre parole, il virus chiama ad un cambio dei paradigmi tradizionali, per cui nulla sarà come prima, gli equilibri tra poteri dello Stato, la gestione del credito, il welfare. Servirà il patrimonio, anche morale, dell’essere europei, quello che ci fa diversi anche dal resto dell’Occidente oltre che dal mondo. Se sarà offuscato da calcoli egoistici, il virus avrà fatto il danno più grande ed il tributo terribile di vite umane di questi giorni sarà stato vano.
* Ordinario di Istituzioni di Diritto Privato- Università di Salerno