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L’ex ministra Trenta col suo bell’appartamento dell’Arma ad equissimo canone, ha fatto un’overdose di editoriali, tweet, rimbrotti, fuoco amico ed esercizi di virtù della penna ( si fa per dire) dell’elzeviro, così tanti da candidarsi come nuovo “topos” della figura barbina. Non inveiamo. Ne recuperiamo, però, il significato simbolico per ragionare intorno ad una certa visione del mondo che domina la politica italiana di questi tempi. In altre parole: i sociologi denunciano il fatto che si siano rotti gli ascensori sociali in Italia, per cui oggi lo studio, l’impegno, il merito, non rappresentano più gli strumenti nelle mani delle giovani generazioni per aspirare ad una posizione migliore di quella dei padri. Purtroppo è verissimo in quasi tutti i campi della vita nazionale. Tranne che in politica.
Perché è lì che sopravvive l’ultimo ascensore che, non in una vita di fatica, ma in un solo giorno, per una chiamata divina, ti fa svoltare: dalla coltivazione della grigia e molto ispida quotidianità, all’empireo dei palazzi romani con i soldati che ti fanno il saluto col rumore di tacco quando entri, i microfoni e le telecamere che si contendono la tua battuta come se fossi il premio Oscar per il migliore attore protagonista, gli incontri con la gente che conta, che fino a ieri vedevi solo in televisione, e che adesso vuol venire a cena con te. Perché accade questo? Perché vieni cooptato dal potente di turno, anche lui inopinatamente eruttato nell’empireo dal gesto istintuale di un popolo sovrano disperato e capriccioso, il voto “ proviamo quest’altro”.
Come quei lapsus rivelatori noti nelle scienze della psiche umana, la candida ex ministra ha detto una cosa che racconta tutto questo: “Ho bisogno di una casa di rappresentanza perché dopo l’esperienza al ministero le mie relazioni pubbliche si sono allargate”. Il punto è tutto qui: dopo l’upgrade sociale non posso più tornare indietro. In questa affermazione prende carne e anima lo spirito ( politico) del tempo. Il nuovo ceto ha poche e solide certezze, in primis la consapevolezza del ciclo brevissimo della politica, da cui deriva per corollario la profonda riflessione: “E quando mi ricapita?”. In secundis ( anche questa collegata alla prima), l’essere post- ideologici, il che funzionerebbe come una specie di abilitazione ad accordarsi pure con belzebù, per allungare la permanenza nel palazzo. Infine, data la scarsa casistica accumulata, il concetto: “Se è andata bene una volta perché non dovrebbe adesso?”. Qual è la filosofia che ispira il nuovo ceto è presto detto: quella che i tedeschi chiamavano Biedermeier, la quintessenza della visione piccolo borghese con tutte le sue idiosincrasie e le sue gelosie, la sua protesta e il suo antagonismo, il suo guardare dal buco della serratura i potenti, oggi sembra essere diventato il canone della politica politicante al vertice del paese. Attenzione: nulla a che vedere con l’operosità, la dignità, la voglia di emanciparsi, la capacità di sacrificio di quel ceto medio- oggi in grave crisi- che ha fatto grande l’Italia e solida la democrazia nel dopoguerra. Parliamo invece di quella spessa patina di angusti pregiudizi, di asti, di ambizioni smisurate e talvolta deliranti, insomma tipo “arsenico e vecchi merletti”, della sottocultura che si annida negli angoli bui del populismo. Che non ha mai avuto niente di rivoluzionario. Di reazionario molto, invece.