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Con un editoriale profondo e meditato sul Corriere della Sera, Ernesto Galli torna sul tema del trasformismo di cui anch’io mi sono occupato sul periodico on line Atlantico’. Ho sostenuto che, indipendentemente dal riferimento storico appropriato no che fosse, Agostino Depretis e Marco Minghetti - i protagonisti della svolta trasformistica del 1882 - non avevano nulla a che vedere con Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti; e che un giudizio negativo sulla «convergenza fra democratici e pentastellati», che per molti liberali «avviene in uno stupefacente vuoto pneumatico di pensiero» ( Giovanni Orsina), può essere sbagliato ma non è un’ «etichetta moralistica».
Riprendo il discorso, invece, sotto lo stimolo di un nuovo editoriale di Galli della Loggia del 21 settembre in cui lo storico ha buon gioco nel dimostrare, contro le analogie superficiali di chi si serve del passato come un campionario di esempi stravolti e piegati alle proprie tesi, che il connubio tra i liberali di Cavour e i democratici di Rattazzi, non suggerisce nessuna «sia pur pallida somiglianza con quanto è successo ultimamente nelle aule del Parlamento italiano». Prima di questa opportuna puntualizzazione, però, nell’articolo si legge una messa a fuoco del ‘ trasformismo’, tanto chiara quanto definitiva. «Trasformismo non significa affatto cambiare opinione su questa o quella questione. Non vuol dire cambiare idea. Ci mancherebbe altro. Il mondo, le situazioni, i protagonisti cambiano a velocità vertiginosa: sarebbe assurdo che invece deputati e senatori dovessero conservare sempre la medesima opinione di cinque, dieci, o anche un anno prima. Le cose stanno però ben diversamente quando si tratta del mutamento della propria identità politica e non già di un semplice mutamento di idee su una determinata questione, sia pure importante».
E’ una tesi con la quale concordo senz’altro ma alla quale vorrei aggiungere una «opinione concorrente nel giudizio», per usare l’espressione di quei «giudici americani che, condividendo la motivazione della decisione di maggioranza della Corte di cui fanno parte, vi uniscono, per così dire ad adiuvandum, alcune considerazioni personali in parte differenti». Parlando dell’identità, Galli della Loggia, per così dire, schmitteggia un po’ giacché, a suo avviso, essa non è data dall’avere opinioni costanti «su alcuni problemi chiave» ma «assai più da un fattore diverso: dagli amici e dai nemici che si hanno o che si decide di avere». Insomma : dimmi chi è il tuo nemico ( e quindi il tuo amico) e ti dirò chi sei. E’ innegabile che polemos e filia siano attributi cruciali dell’identità ma è altrettanto innegabile che il sostantivo non si riduce ai suoi attributi: anche i nemici, come le opinioni, possono cambiare e un monumento ad Aldo Moro può raffigurare lo statista cattolico con l’Unità sotto braccio. L’identità rinvia a una sostanza etica, a un insieme di credenze, a una visione del mondo, a uno stile di vita e, soprattutto, a tradizioni e a simboli storici che configurano quasi un’appartenenza religiosa o meglio una comunità di spiriti eletti.
Quando si costituì il primo centro- sinistra non pochi democristiani provarono il forte e comprensibile disagio di trovarsi alleati di una famiglia ideologica così lontana dalla loro ( soprattutto in fatto di laicismo). Entrando, però, nelle sezioni della Dc, sotto i grandi ritratti di Alcide De Gasperi e di Luigi Sturzo, tra le bandiere, i libri e i manifesti del partito, si ritrovavano tra la loro gente e, sia pure con molte perplessità, si rimettevano alle scelte dei dirigenti. ‘ Se rimaniamo uniti, se non perdiamo di vita le nostre mete ideali’, pensavano, anche le strategie più ardite, non minacciano, ma rafforzano, la nostra identità e inoltre, facendo di necessità virtù, possiamo renderci utili anche al Paese.
Disposizioni psicologiche non dissimili, dovettero provare i militanti comunisti all’epoca del ‘ compromesso storico’. Ci si ritrova con Andreotti ma sotto lo sguardo vigile dei grandi antenati come Antonio Gramsci, teorico dell’egemonia, e come Palmiro Togliatti, alfiere della ‘ democrazia progressiva’, che non consentiranno, certo, di cambiare pelle.
A sconcertare oggi, qualunque cosa si possa pensare dell’esecutivo giallorosso ( per molti scelta inevitabile), è l’assenza di ogni riconoscibile identità culturale da salvaguardare. Vengono a patti leaders ‘ senza famiglia’, che non debbono ‘ trarre gli auspici’ sugli avelli di nobili antenati : tattici senza strategia, giacché c’è strategia, per adoperare una facile metafora, quando ci sono un esercito, una Nazione, un grande disegno politico da lasciare in eredità alle generazioni future.