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Sarà forse per la frustrazione procuratami dallo stato di animale da cortile - ripeto- in cui sono stato ridotto a Montecitorio, insieme con i colleghi della stampa parlamentare, dalla nuova distribuzione degli spazi e dei locali della Camera per l’emergenza virale, con lo storico Transatlantico trasformato da anticamera in appendice dell’aula in cui maggioranza e opposizioni si confrontano discutendo e votando, mi sono perso il conto delle volte in cui il governo, tra la stessa Camera e il Senato, è ricorso in questa legislatura, ma più particolarmente negli ultimi nove mesi, alle cosiddette questioni di fiducia. E mi risparmio la fatica di fare bene i conti, d’altronde facili a chiunque navigando in rete e consultando i siti giusti, per non deprimermi più di quanto già non sia nella doppia veste di cittadino e di giornalista. E’ ormai una indigestione quella che il governo sta facendo delle fiducie parlamentari, pur sapendo che la loro frequenza è storicamente proporzionale alla sfiducia potenziale derivante dalle turbolenze, dalle divisioni, dagli umori delle componenti della maggioranza, mobili come le donne dell’immortale Rigoletto di Giuseppe Verdi. Più dei tempi, più delle difficoltà di gestione dei lavori parlamentari intervenute con le distanze ed altre misure di sicurezza o di cautela imposte dai rischi di contagio virale, più delle manovre dilatorie e persino ostruzionistiche, per quanto legittime, delle opposizioni, conta sui ricorsi alla fiducia da parte del governo, con le consuete decisioni e comunicazioni all’aula da parte del ministro dei rapporti col Parlamento o di altri competenti del contenuto del provvedimento all’esame dell’assemblea, la paura di perdere il controllo della situazione a voto sia segreto sia palese. Col voto segreto i dissidenti non rischiano naturalmente nulla; col voto palese, obbligatorio per la fiducia, rischiano le sanzioni dei loro gruppi. Che quanto meno limitano la tentazione all’indisciplina o all’autonomia, garantita dalla norma costituzionale sulla mancanza del cosiddetto vincolo di mandato, perché alla fine della legislatura il dissidente può anche perdere la ricandidatura. O deve cercare di guadagnarsela altrove, cioè sotto altre insegne o bandiere. E questa è una fatica diventata più difficile del solito in un Parlamento destinato la prossima volta ad avere molti meno seggi di adesso, salvo l’assai improbabile bocciatura referendaria, in autunno, della legge che ne ha disposto la fortissima dieta dimagrante grazie al prezzo disinvoltamente pagato ai grillini dal Pd per subentrare ai leghisti nel governo e nella maggioranza nella scorsa estate. Temo che non saranno molti quelli come me tentati dal No referendario alla riduzione del numero dei deputati e dei senatori per lo spirito antiparlamentaristico della riforma, voluta dai grillini allo scopo dichiarato di risparmiare quella parte pur infinitesimale della spesa pubblica in ballo, lasciando invariate tutte le anomalie e inutili duplicazioni del cosiddetto bicameralismo perfetto voluto più di 70 anni fa dai costituenti. Ma forse non scandalizzatevi- finirò per votare anch’io a favore solo per togliermi il gusto di favorire l’autorete politica del M5S. Che, pur interessato com’è dalla sua crisi interna, di voti e di identità, a far durare questa legislatura sino alla scadenza ordinaria del 2023, quando sarà ben difficile che potrà tornare a prendersi più del 30 per cento dei voti e ancor più dei seggi, finirà per delegittimare ulteriormente l’attuale sovraffollatissimo Parlamento. E lo delegittimerà già nella scadenza o nel principale compito che lo attende nel 2022, quando dovrà eleggere il nuovo presidente della Repubblica, o confermare quello in carica, se mai Sergio Mattarella si lascerà tentare dalla rielezione. Non meno bizzarra o inquietante del frequente ricorso del governo alla fiducia per la paura di perderla con un voto meno vincolato o vincolante, anche a costo di smentire sfacciatamente le aperture verbali alle opposizioni, trovo l’altra abitudine che esso ha preso, questa volta con la complicità piena dei presidenti delle Camere, di trasformare le sue comunicazioni al Parlamento in “informative”. E ciò solo per precludere una votazione al termine della discussione relativa a materie o problemi su cui la maggioranza è divisa. Questa è un’abitudine che, senza voler mancare di rispetto personale al presidente del Consiglio, credo gli nuoccia come politico, come professore e come avvocato. E mi risulta - anche a costo di rischiare smentite o precisazioni - non molto apprezzata, quanto meno, dalle parti del Quirinale, dove pur si riconosce la questione di esclusiva competenza parlamentare, da regolamento o prassi più che da legge ordinaria o costituzionale.