Ci sono libri che pesano. Perché sono densi di fatti, di verità, e di nodi ancora da sciogliere. È il caso di “Le mani sulla storia - Come i magistrati hanno provato a (ri) fare l’Italia”, ultimo lavoro di Giuseppe Gargani, o meglio frutto di un riuscito connubio tra Daniele Morgera, che intervista, e Gargani appunto, che racconta.

Il giornalista Rai e l’ex parlamentare, avvocato e giurista raffinato, ne parleranno oggi alle 16 nella presentazione in programma alla Camera, con interlocutori del calibro di Giorgio Mulè, Sabino Cassese, Fabrizio Cicchitto, Anna Finocchiaro, Nello Rossi, Valerio Spigarelli e Alessandro Barbano, che sarà il moderatore. “Le mani sulla storia” rilegge Mani pulite e il trauma provocato dalle indagini del ’ 92-’ 93 sulle vicende italiane, con il disvelamento di alcuni fatti inediti: su tutti, un clamoroso incontro fra Gargani e i pm del pool di Milano agli albori dell’epopea giudiziaria che sconvolse la Repubblica.

Onorevole Gargani, una cosa è certa: in 33 anni c’è un soggetto rimasto fermo o quasi al ’ 93, ed è l’opinione pubblica, tuttora diffidente nei confronti della politica “ladra e corrotta”. È il problema dei problemi. È così: con Mani pulite, si è incistata nei cittadini la convinzione che la politica sia formata da un’accolita di approfittatori.

Una menzogna che cerco di decostruire. Ma che ha prodotto danni giganteschi. A cominciare dal persistere di quella diffidenza.

Ci parli della “menzogna”.

C’era la corruzione, nella prima Repubblica, ma era marginale. La gran parte degli illeciti riguardava il finanziamento ai partiti. Ed è una verità accertata processualmente, innanzitutto per la figura assurta, per tanti, a simbolo di quel sistema, Bettino Craxi: le sentenze definitive non hanno accertato alcun arricchimento personale, ma solo la percezione di risorse destinate all’attività politica. Solo che la narrazione di questi 33 anni, ed ecco la vera risposta anche alla sua prima domanda, ha insinuato la leggenda nera della politica endemicamente sporca e corrotta. Una narrazione giornalistica che ha fiancheggiato quella dei pm, e ha provocato il distacco dei cittadini dalle istituzioni, la fine della partecipazione alla politica, l’antipolitica, e insomma un disastro civile che va ben oltre la fine dei partiti, di quei partiti della prima Repubblica.

L’episodio clou: non sveliamo tutto ma almeno diciamo cosa lo provocò.

L’incontro che ebbi, e che durò due ore e mezza, con tutti e tre i pm della Procura di Milano, e cioè Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Francesco Saverio Borrelli, scaturì dal fatto che io ero, nella Dc, la persona con maggiore sensibilità per i problemi della giustizia, e che della Giustizia presiedevo la commissione di Montecitorio, nella quale erano depositate alcune proposte di legge. Ce n’era anche una del deputato Pci Giovanni Correnti, avvocato come me, il quale puntava come altri a modificare il meccanismo della custodia cautelare, renderlo più rigoroso, e a trasferire l’illecito del finanziamento ai partiti dal campo penale a quello amministrativo. Correnti fu allontanato da Botteghe oscure. A me i pm di Milano dissero in sostanza che se non potevano più perseguire il finanziamento illecito non sarebbero riusciti più a perseguire neppure la corruzione. E qui veniamo al dunque.

A quale dunque?

La pretesa della magistratura, consolidatasi allora ma arrivata ai giorni nostri, di ricercare non il singolo fatto di reato, ma il fenomeno, ed estinguerlo in quanto angeli sterminatori. Un assurdo, che fa a pezzi i principi del diritto penale, e che come dicevo si è infranto sulle proporzioni assai diverse tra quanto affermato dalle sentenze rispetto alla corruzione reale, da una parte, e il quadro che le indagini delle Procure di Milano e delle altre città italiane tentarono di disegnare, dall’altra.

Veniano al punto: rispetto all’ipnosi iniziata nel ’ 92, l’opinione pubblica si è emancipata abbastanza da votare sì al referendum sulla separazione delle carriere?

Non lo so. Non ne sono convinto, le dico la verità. Mi sembra che resti profondamente radicata l’idea di una politica sporca, e che in fondo i magistrati sono gli unici a poter curare questa patologia. Anche se l’immagine dell’ordine giudiziario si è assai compromessa negli ultimi dieci anni, c’è quel discorso, e cioè che il cittadino può sopportare senz’altro il finanziamento illecito, ma non l’arricchimento personale. E poiché a fronte del 72,5 per cento di assoluzioni, la narrazione mediatico- giudiziaria continua a sostenere, a far credere che la maggioranza degli indagati di Mani pulite era effettivamente corrotta, i cittadini potrebbero ancora affidarsi ai magistrati e votare contro la riforma.

E così resteranno confermate la diffidenza delle opinioni pubbliche nei confronti dei politici e la fine della partecipazione alla politica, cioè i frutti peggiori che la fine della prima Repubblica ci ha lasciato.

Vede, una possibilità c’è. Io mi batto, anche con questo libro- intervista, perché la narrazione giudiziaria sulla prima Repubblica sia sostituita dalla verità storica, e cioè dall’esistenza, sì, di un sistema di finanziamenti illeciti in cui però l’arricchimento personale del singolo era sostanzialmente residuale. Un fenomeno che, nella maggior parte dei casi, come le sentenze affermano, non riguardava i leader dei partiti. Mi batto per questo, come rappresentante della vecchia classe dirigente. Nella consapevolezza che il Pci, e poi i partiti che ne sono stati eredi, hanno approfittato di un impeto rivoluzionario trasferito da Magistratura democratica in tante Procure a inizio anni Novanta e orientato a un regime change, di cui Massimo D’Alema diede conto di essere consapevole.

Dopo quegli errori, a dover pronunciare un messaggio di pacificazione, a dover riconoscere che demolire la prima Repubblica sotto la scure delle accuse di corruzione fu un errore, innanzitutto perché fu un’ingiustizia consumata con la menzogna, ecco, a fare tutto questo dovrebbe essere proprio il Pd. Se accettasse di riconoscere la verità, avvierebbe la pacificazione. Che deve compiersi riguardo a Tangentopoli come a Mafiopoli: la verità è nelle sentenze di assoluzione su Calogero Mannino, e in particolare nella pronuncia della Cassazione. È nelle parole di Giovanni Falcone, secondo il quale Salvo Lima non era mafioso. Si può scrivere la verità, si può rimettere la verità storica al proprio posto. Anche il centrosinistra ha interesse a farlo. Ne va della nostra democrazia e del futuro di questo Paese.