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«La condizione femminile in Italia non è paragonabile a quella di altri paesi occidentali. Siamo molto indietro». Parte da questa considerazione il professor Tullio Padovani, già ordinario di Diritto Penale alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa ed Accademico dei Lincei, nel commentare la violenza sessuale di Palermo delle scorse settimane.
Professor Padovani, in merito ai fatti di Palermo nel tritacarne della cronaca nera è finita la vittima dello stupro, che, incredibilmente, viene anche attaccata dagli odiatori sui social. Abbiamo toccato il fondo della giustizia mediatica?
«Il fondo della giustizia mediatica lo abbiamo toccato e superato. Il problema, però, non è soltanto questo. Il vero problema è quello della giustizia, perché noi abbiamo un regime normativo in materia di tutela della libertà sessuale che fa vergogna. Potremmo definire l’Italia più che una repubblica democratica una repubblica saudita. La condizione femminile in Italia ha un carattere arcaico. Questo arcaismo non si riflette solo nel costume. Il costume corrisponde all’assetto normativo. Ci sciacquiamo la bocca per il fatto di avere nel 1996 prodotto una riforma che è stata presentata ridicolmente come epocale, in quanto, si è detto e si ripete ancora, che si è passati da un regime di tutela della moralità pubblica e del buon costume alla tutela della libertà personale. Si disse che finalmente la libertà sessuale era tutelata con il salto nell’età moderna».
Nella realtà è stato davvero così?
«Nemmeno per idea. Noi abbiamo fatto come quel tale che volendo riabilitare il lupanare gli ha messo l’etichetta “educandato”, ma le cose sono rimaste invariate. Dentro è rimasto sempre un lupanare. Io avevo segnalato, oltre trent’anni fa, l’esigenza di una riforma chiara. Una riforma per tutelare la libertà personale non può riprodurre il modello del Codice Rocco, che prevede per lo stupro la violenza o la minaccia e la costrizione della vittima. Questo è il nucleo normativo su cui si costruisce tutto il sistema per analogia o per differenziazione. Per i minori il discorso cambia, ma la regola per le persone adulte, per la tutela della libertà sessuale, sono la violenza o la minaccia e la costrizione della vittima».
Un sistema ormai superato?
«Viviamo ancora nel medioevo che aveva costruito la funzione sessuale, badiamo bene non la libertà sessuale, della donna come dipendente da un soggetto altro con la distinzione di tre figure di stupro: semplice, qualificato, violento. La donna non era libera di disporre del proprio corpo, dipendeva da altri soggetti. Lo stupro semplice è sparito da 150 anni. Quello qualificato è scomparso in Italia dal 1996, fino a quell’anno esisteva la seduzione con promessa di matrimonio. Nel 1996 cosa partoriamo? Il gran coro dei riconoscimenti verso la tutela della libertà sessuale della donna porta alla violenza o alla minaccia e alla costrizione. La riforma del 1996 è assurda. Ha perpetuato il passato con la tecnica gattopardesca più infame. Ma mi faccia aggiungere un’altra cosa.
Prego, dica pure…
Se una persona vuole entrare in casa sua, per porre questa stessa persona in una condizione di illiceità penale basta dire “no, tu non entri”. Per la violazione del domicilio basta la mera mancanza del consenso, mentre invece per compiere una attività sessuale con un’altra persona bisogna che intervengano una modalità violenta o minacciosa e, comunque, uno stato di costrizione».
Il modulo arcaico al quale lei faceva riferimento e le sue preoccupazioni partono da situazioni ben precise con implicazioni per la vittima della violenza?
«Certo. Parliamo di un modulo in cui la donna ha un onere di resistenza. Deve dimostrare di essere stata costretta e la costrizione deve essere provata in giudizio. Ecco che allora la vittima è immediatamente avviata sul processo di colpevolizzazione secondaria. Da qui, ricollegandoci ai fatti di Palermo, domande del tipo: “Ma non è che per caso ci sei stata? Hai provocato i ragazzi del branco? Sei stata proprio costretta?”. È questo il punto cruciale. In Italia il “no” non basta! Bisogna resistere. Bisogna che la donna, in sostanza, si dia da fare per procurarsi, durante lo stupro, le prove che effettivamente è stata stuprata. Se la donna è terrorizzata e, a un certo punto, non ha il coraggio di opporsi a colui, che, magari, cinque minuti prima appariva una persona seria, allora sconta il peccato di non avere resistito. Siamo di fronte a stereotipi di un sottofondo culturale di cui il maschio è portatore spontaneo».
Quale valore dare quindi al “no, vale no”?
«Il retaggio culturale di un tempo è rimasto. Se la norma avesse detto che “no, vale no”, allora l’onere, non di resistere, ma di accertarsi, di stare attento, spetterebbe al maschio. Quest’ultimo invece non vuole essere messo in condizioni del genere. I maschi sono maschi e le leggi, guarda caso, le fanno i maschi non le femmine. La legge del 1996 l’hanno fatta i maschi».
La legge però si può cambiare…
«La legge sarebbe un grande promotore di cultura antagonistica, perché creerebbe molti problemi ai maschi intraprendenti che ora sfruttano questo meccanismo di tolleranza verso certe manifestazioni piuttosto sgradevoli di sessualità nei confronti delle donne. Un uomo non può permettersi di baciare una donna senza il suo consenso. Siamo di fronte a cose elementari. Gli stereotipi che si riproducono anche sui social, purtroppo, dicono il contrario. Se non si ha il coraggio di una riforma radicale della normativa, nel senso della tutela della libertà personale, non faremo alcun passo in avanti. C’è parecchio da fare, ma non con le chiacchiere. Il primo messaggio culturale lo deve dare il legislatore in maniera forte e chiara».
Stiamo assistendo ad una sorta di banalizzazione dell’orrore. Il compagno della premier ha fatto delle dichiarazioni molto criticate. Qualcuno potrebbe interpretare le affermazioni del giornalista Andrea Giambruno in questo modo: «Se ti ubriachi rischi, se indossi la minigonna no». Cosa ne pensa?
«Bisognerebbe sentire l’intero discorso. Le frasi estrapolate sono sempre tendenziose per loro natura. Le frasi pronunciate corrispondono ad una normale sensibilità maschile. Il limite per la propria sicurezza, che deve essere cercato dalle donne stesse, è un pensiero che aleggia in tutti i maschi che si considerano buoni. Ma bisogna pensare alle donne. Il problema è il lupo che non ci deve essere. Se il lupo c’è, bisogna che venga identificato per quello che è. Non serve soffermarsi sull’abbigliamento, sulla lunghezza delle gonne o sul prevedere certe situazioni. Cerchiamo di rendere la nostra società tale da consentire alle donne di esprimersi con libertà, nei modi ritenuti da loro più opportuni. Occorre educare al rispetto e alla regola del “no, vale no” da comunicare sin dalla tenera età, dall’asilo».