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L’Unità ha dovuto lasciarla, e s’è arrabbiato moltissimo. Su quelle pagine ha disegnato e scritto dal 1982 ed è diventato direttore del giornale nel 2016, in un tentativo ormai disperato di farlo uscire dalla crisi. Anche per questo, per l’abbandono de l’Unità da parte di Matteo Renzi «con un’alzata di spalle», non corre buon sangue tra lui e il segretario del Pd. Eppure, nonostante lo sgarbo personale che lo ha fatto molto soffrire, Sergio Staino non ha smesso un attimo di sentirsi «iscritto al partito». E non ha smesso di considerare Renzi il suo segretario, «perché i segretari cambiano, il partito resta». Da questo punto di vista è ancora un comunista vecchia maniera, con il baluardo dell’unità del partito in testa. Uno tra quelli che, anche se ha passato una vita tra le fila di ogni minoranza interna, è sempre restato.
Staino, quindi lei si sente ancora dentro al Pd?
Immagino intenda nonostante ciò che è successo all’Unità. Le rispondo che certo, assolutamente sì, mi sento iscritto e membro del Pd. Se poi vuole sapere se sono soddisfatto… beh, quello è un altro discorso. Ma che io ci sia dentro è fuor di dubbio, ci sono dentro fino al collo. Anzi, mi sento più iscritto io di tanti altri.
Affrontiamolo subito, il capitolo Unità. Una vicenda dolorosa per lei, che ha lavorato una vita in quel giornale e che proprio da Renzi ricevette la proposta di diventare direttore. Le suscita molta amarezza ripensarci?
Amarezza, sì. Ci sono rimasto male perché Renzi mi aveva chiamato a fare il giornale con dichiarazioni molto affascinanti. Diceva di non volere un giornale sdraiato sul governo e sul partito ma pagine di dibattito e anche scontro: una visione in piena sintonia con ciò che anche io pensavo fosse utile. A ferirmi di più è stato il fatto di sentirmi abbandonato senza una spiegazione e per di più in una forma piuttosto offensiva: con un’intervista a Repubblica che sconfessava il progetto politico concordato.
Un’intervista alla quale ha risposto per le rime. Nemmeno allora ha pensato di andarsene?
Renzi è arrivato a dire che l’Unità era un fatto capitalistico privato e che lui non c’entrava nulla. Anche in quel caso, la mia risposta è stata: «Io non me ne vado dal partito perché dici questo, ma sei tu stesso che, dicendolo, ti metti fuori dal Pd, caro segretario». Ma cosa vuole che dica: Renzi è un segretario e i segretari passano. Il partito è un’altra cosa.
Parliamo del partito, allora. Il Pd, lo ammetterà, è un po’ scalcinato: tra scissioni e sconfitte elettorali.
C’è in me molta tristezza su come siamo arrivati a questa situazione. Eppure io sono convinto che, se a questo Pd noi riusciamo a dare un’anima e soprattutto a formare nuove generazioni, non tutto è perduto. Del resto per me il partito, in quanto aggregazione ideale di una grande moltitudine di persone, rimane lo strumento più importante, fuori non trovo niente. Per questo ripeto ai compagni «state dentro, non andate via, non viveteci come nemici». Forse sono sin troppo ottimista, ma resto convinto che ci sia la possibilità di costruire qualcosa insieme.
Parla con grande convinzione, eppure questo Pd, almeno all’inizio, lei non lo voleva e anche ora si riconosce nella minoranza. Come si vive sempre all’opposizione?
Io nel partito non ho mai avuto incarichi dirigenti e tanto meno posizioni personali da difendere. La mia è una storia condivisa da tanti che come me sono stati nel partito per passione, per dare una mano a trasformare la società in un senso più giusto e che hanno sempre visto con sospetto le distorsioni burocratiche che crescevano a dismisura. Essere all’opposizione non è una scelta programmata ma deriva dalla necessità di criticare e di verificare nella discussione la giustezza delle scelte fatte al vertice. Del resto, credo che quando si ama molto una cosa sia naturale: è un po’ come il rapporto con la mamma, le si vuole bene ma si litiga in continuazione. Era così anche quando ero nel Pci, sa?
Ricostruiamola, questa vita all’opposizione. Era contrario alla svolta della Bolognina di Occhetto?
Prima ancora di Occhetto sono stato contrario all’addio che Berlinguer fece all’Unione sovietica; poi contrario all’ombrello della Nato. Infine, al momento di decidere di abbandonare il nome di partito comunista per trasformarlo in qualche altra cosa che poi fu il Pds, io stavo con Bassolino. Capivo, certo, l’esigenza di una revisione storico- politica dopo la caduta del muro di Berlino, ma nutrivo molta diffidenza riguardo all’idea del cambiamento del nome. Eppure nemmeno allora sono uscito. Anzi, sono stato nel Pds e poi nei Ds, anche se sempre in posizione critica. Poi siamo arrivati al Pd e anche al Pd io mi sono opposto, perché non mi piaceva questa fusione a freddo con gli ex democristiani. Però ho sempre rispettato le decisioni della maggioranza. Le scelte d’altronde avvenivano sempre dopo una lunga discussione, in tutto il partito e a tutti i livelli.
Possibile che nemmeno una volta sia stato d’accordo con la maggioranza?
Ma la dialettica è l’elemento fondamentale, se cominciamo ad aderire tutti passivamente sarebbe finita la politica! Io ho sempre continuato a interrogarmi se gli altri avessero ragione: stare all’opposizione significa mettersi sempre in discussione, nei confronti del partito e nei confronti di noi stessi.
Del Pd, oggi, si dice che abbia perso il contatto con la base. Secondo lei è vero?
Dentro il Pd ci sono tantissimi compagni che sono smarriti, è vero, ma hanno un cuore enorme e moltissima voglia di fare. Nelle superstiti Feste dell’Unità sapesse quanti militanti continuano a lavorare, sperando che qualcosa nasca. E sapesse anche quanti, tra quelli che sono usciti, continuano a guardarci e a sperare che il partito si rivolga a loro.
Alziamo lo sguardo dalla base, allora. Il vero guaio del Pd sta nel suo gruppo dirigente?
Bè, se qualcosa va male nel partito, è ovvio che il primo responsabile è sempre il gruppo dirigente. Il problema però è che quest’oggi ci sono moltissime tensioni all’interno del vertice ma pochissime proposte concrete di alternative. Anche figure ricche di esperienza e alle quali mi sento molto vicino, da Fassino a Martina a Cuperlo e a Orlando, per fare alcuni nomi, sono abbastanza in affanno, nel tentativo di porre in atto una vera direzione collegiale. Capisco che è difficile farla con un Renzi così accentratore ma forzare un po’ il confronto farebbe bene a tutti. Non parliamo poi della sinistra al di fuori del Pd: persone che hanno incredibilmente perso ogni cognizione di cosa significhi fare politica.
Sente la mancanza di una scuola di formazione politica?
Io penso che l’elemento pedagogico sia il pilastro indispensabile per fondare il nostro futuro. Del resto, ho accettato di dirigere l’Unità perché speravo che quel foglio potesse essere uno strumento di aiuto in questo senso, soprattutto per i giovani.
E che cos’è, per lei, fare politica?
Significa partire da un progetto, sapere chi lo può appoggiare, con chi allearsi e a chi invece sparare addosso. La politica è l’arte di rag- giungere certi obiettivi attraverso il compromesso. Oggi, invece, il compromesso si chiama inciucio: oggigiorno anche la svolta di Salerno di Togliatti sarebbe bollata con questo termine spaventosamente offensivo che, se usato allora, non ci avrebbe permesso di scrivere la Costituzione più bella del mondo. Il punto è questo: oggi manca la visione di capire che non esistono avversari totalizzanti ma situazioni mobili con cui interloquire senza perdere di vista gli obiettivi che ci siamo posti.
Questa mancanza che lei dice ha favorito la scalata di Renzi al partito?
L’operazione di Renzi è stata fortemente facilitata da un atteggiamento ottuso dell’allora gruppo dirigente dei Ds, in particolare il gruppo di Firenze, perché Renzi è nato lì. Lui, che veniva dalla Margherita, offrì ai Ds tutti i comuni della provincia di Firenze, in cambio della sua elezione a Presidente della Provincia. Una proposta che venne considerata dai compagni dirigenti come una forma di imbecillità di questo giovane: in realtà era l’inizio di un disegno molto più ampio, che mirava a cavalcare intelligentemente il desiderio di innovazione che attraversava tutto il nostro partito. Renzi fu letto come il rinnovamento di fronte ad un gruppo dirigente della sinistra ufficiale ormai stantio e autoreferenziale. Il suo successo gettò gli ex Ds in una situazione di smarrimento. Per questo, poi, D’Alema e i suoi fecero passare l’idea dell’usurpazione, del marziano che prende il partito.
E infine il marziano è diventato segretario. Per questo i dirigenti di cui lei parla se ne sono andati ad uno ad uno?
Non se ne sono andati subito. Prima, con opportunismo, si è cercato un accordo, che doveva essere siglato con la nomina di D’Alema come Alto commissario europeo. Invece, quando Renzi nominò la Mogherini con grande schiaffo a D’Alema, si gettarono le basi per l’Mdp. Io sono sicurissimo che, se D’Alema fosse stato nominato Alto commissario, non ci sarebbe stata la scissione.
E’, come sempre, “tutta colpa di D’Alema”?
D’Alema è curioso: nel passato è stato fin troppo dogmatico nell’aver fiducia nel partito e nel considerare i militanti come pedine che avrebbero ciecamente obbedito alle scelte della direzione. Ora invece, proprio lui che ha dato il via all’operazione Pd, mi viene a parlare della necessità di costruire un nuovo partito, invece che stare in quello che ha voluto lui.
Si aspettava la scissione, quindi?
Ho sperato fino all’ultimo che non avvenisse, poi alla fine ho sperato che ci fosse perché ormai si era capito che nel cervello di Massimo c’era solo un obiettivo distruttivo. Ormai si può affermare tranquillamente che D’Alema è stato il personaggio più deleterio per la sinistra italiana, ha vissuto tutta la storia del partito in chiave personale: dopo Natta era incarognito della nomina di Occhetto a segretario e non ha avuto pace finché non lo ha distrutto. Poi ha voluto distruggere Prodi con tutto quel che c’era di innovativo nel primo governo della sinistra, poi ha distrutto Veltroni per prendersi lui il PD. Ora l’obiettivo principale è quello di distruggere Matteo Renzi. Le sembra una persona che può dare un minimo di fiducia per il futuro dei nostri nipoti? E’ per questo che a un certo punto ho sperato che se ne andasse e mi spiace solo che lo abbia seguito Bersani, perché Bersani era di un’altra stoffa, molto più generoso e legato alla ditta.
Non condivide nulla di questo progetto?
No, non posso condividere proprio nulla: Mdp è mosso dal rancore, perché parte dal presupposto che Renzi abbia usurpato qualcosa e che loro, poverini, siano innocenti. Le cose che nascono con rancore non hanno possibilità di crescita e soprattutto non hanno possibilità di fare qualcosa di buono. Per questo spero che Pisapia ci pensi bene prima di andare ad abbracciare D’Alema. Ho l’impressione comunque che saranno assai pochi i compagni che li seguiranno.
Lo stesso vale per Civati e Fassina, allora.
No, in loro non c’è rancore. Dietro a Civati e Fassina c’è una irrazionalità utopistica ma c’è anche molta onestà. Sono due dirigenti generosi, che darebbero la vita per una rivoluzione sociale, ma politicamente sono degli analfabeti. Come si può davvero pensare di autocertificarsi partito? Non si può confondere un partito con delle bocciofile.
Lei ha citato molti nomi: la sinistra continua ad avere il vecchio problema della leadership?
Considero la leadership l’elemento oggettivo che ha determinato la crisi della sinistra. Per una ragione particolare, però: da quando la prassi politica è diventata il controllo di posti dirigenziali, si è perso l’aspetto soggettivo che fa vincere: la passione, la voglia di cambiamento, di aggregazione e inclusione. Attenzione, lo abbiamo perso prima dell’arrivo di Renzi, lui ha solo sfruttato la situazione.
A proposito di vittorie, Luigi Berlinguer in un’intervista a questo giornale ha sostenuto che «l’imperativo morale del Pd è vincere», lo ritiene possibile?
In Sicilia, onestamente, non credo. Anche per le future elezioni la situazione mi sembra complessa. Io però rovescerei la dichiarazione di Berlinguer sui singoli militanti: l’imperativo è votare Pd, questo sì. Vinca o non vinca, l’imperativo è questo. È un’illusione tragica e un errore terribile quello di pensare di dare una lezione al Pd non andando a votare o votando contro. Io in passato ho fatto questo sbaglio e ne ho sofferto molto: qualunque voto perso dal Pd è un voto conquistato dalle destre di Berlusconi o di Grillo. Da questo deriva - anche se si è d’accordo solo parzialmente con ciò che questo partito ha fatto - l’imperativo di votarlo e io lo voterò.
Anche se si trattasse di votare per Renzi?
Anche se si trattasse di votare per Renzi, per Gentiloni, per Delrio, Minniti, Zingaretti o, perché no, per Cuperlo.