«I o sono innocente e voglio che lo sappiano tutti». A parlare è Fausta Bonino, per 30 anni infermiera dell’ospedale di Piombino e dal 2015 sbattuta sui giornali come “infermiera killer”. Un’etichetta che le era stata strappata con un’assoluzione piena dalla Corte d’Appello di Firenze, che aveva evidenziato pesanti lacune nelle indagini, definendo l’inchiesta a suo carico un teorema «destituito di fondamento».

La Cassazione, però, ha rimandato indietro il processo, facendola ripiombare «in un incubo». A maggio scorso, infatti, il processo bis si è concluso con una nuova condanna all’ergastolo, per quattro omicidi sui dieci contestati dalla procura, tutti consumati in reparto con la somministrazione di dosi massicce di eparina. Ma a lasciare stupiti è, soprattutto, il presunto movente: una pregressa epilessia che l’avrebbe alterata al punto da trasformarla in un mostro. La storia è tutt’altro che chiusa, anche perché per sei morti non esiste un colpevole: stando alla sentenza, infatti, gli omicidi non sarebbero stati commessi da Bonino, ma sarebbero comunque morti violente. Ma su chi ne sia stato l’autore nessuno sembra interrogarsi.

Mentre si attendono ancora le motivazioni della condanna, Bonino ha dunque deciso di esporsi, con un messaggio video nel quale si dichiara innocente. «Mi sono trovata in questa situazione tremenda senza capire perché, trascinata sempre più in basso e descritta come un mostro in tribunale e sui giornali, quando la ricostruzione degli inquirenti è visibilmente contradditoria e lacunosa - ha sottolineato -. Io non ho ucciso nessuno di questi pazienti. È una sentenza sbagliata, che arriva alla fine di una indagine piena di contraddizioni. Io spero che i giudici si mettano una mano sul cuore, affinché non mandino una persona innocente a scontare l’ergastolo».

Bonino si sente un capro espiatorio, un colpevole trovato per caso, ma senza ragioni o prove. L’unico elemento a suo carico la sua presenza in reparto ogni volta che si è registrata una morte sospetta. Ma si tratterebbe di elementi indiziari: il killer, secondo l’accusa, avrebbe lasciato la propria traccia timbrando con il cartellino. Basta? No, per i primi giudici d’appello, anche perché nel corso del processo «più testimoni hanno riferito che capitava che sanitari di qualsiasi reparto timbrassero la propria uscita e poi tornassero in reparto anche fuori servizio, senza utilizzare il badge e quindi senza far rilevare la propria presenza e che non c’era nessun badge né tornello per identificare l’ingresso di una persona in terapia intensiva. Per di più i testimoni hanno dimostrato che vi erano porte spesso aperte o facilmente apribili dall’esterno».

Non sarebbe poi mai stato accertato «come avrei fatto a somministrare ai pazienti la sostanza nel tempo individuato dall’accusa». Ma non solo: Bonino ha raccontato di essere stata sottoposta «a pressioni enormi per estorcermi una confessione. Le indagini sono sempre state a senso unico, indirizzate verso un unico obiettivo, me stessa, scartando tutte le altre possibilità. Solo dopo tempo mi sono spiegata questo atteggiamento: era l’unica soluzione di fronte alle gravi carenze delle indagini. Ancora ricordo che prima di iniziare mi venne detto “se confessa adesso noi la possiamo aiutare”: in realtà, si cercava e si è sempre cercato un facile capro espiatorio per mettere una pezza alle indagini lacunose».

A intervenire in suo aiuto due professionisti: Aldo Appiani, consulente medico della difesa, e Alberta Brambilla Pisoni, avvocata in pensione che ha collaborato con la difesa. Secondo Appiani, l’analisi dettagliata di ben due casi sui quattro per i quali è stata condannata dimostrerebbe che Bonino «non avrebbe potuto in nessun modo somministrare il farmaco».

Uno dei pazienti, infatti, fu sorpreso da una gravissima emorragia dopo un importante intervento di riduzione di una frattura femorale. «Non è assolutamente verosimile che la somministrazione di eparina fosse stata data prima dell’intervento, come asserito dall’accusa, perché in questo caso l’emorragia infrenabile sarebbe comparsa fin dall’inizio dell’intervento e di ciò non c’è traccia né nella cartella della sala operatoria né nelle testimonianze rese successivamente dal relativo personale medico ed infermieristico. È evidente che l’eparina è stata data dopo l’intervento, come del resto asserito dal giudice di primo grado, ma in questo caso numerose testimonianze negano con decisione che la Bonino si potesse essere avvicinata al paziente, scortato da due medici e quattro infermiere dalla sala operatoria al reparto».

Un secondo paziente, arrivato d’urgenza in rianimazione dalla medicina, per gravi problemi respiratori, è stato scortato da sei sanitari, tra i quali non era presente Bonino, che dunque non sarebbe passata inosservata qualora avesse somministrato una siringa piena di eparina. «Né Fausta né alcuna altra persona potrebbero aver somministrato l’eparina per via diretta in questi due pazienti. Ciò apre quindi la strada al riconoscimento di un’ipotesi di somministrazione alternativa alla via diretta come ad esempio l’uso di una fleboclisi i cui flaconi o le cui sacche possono essere state inquinate da eparina precedentemente all’inizio dell’infusione». Per Pisoni, invece, «non esiste agli atti alcuna prova» della responsabilità di Bonino, «né tantomeno dell’accertato omicidio degli altri sei pazienti per cui è stata assolta per non aver commesso il fatto».

Una formula che conferma che si è trattato di omicidi, ma non per mano di Bonino, che per quei sei casi è stata assolta definitivamente. «C’è dunque da chiedersi chi sia l’omicida a piede libero e perché non vengono riprese le indagini», ha sottolineato la legale, secondo cui la donna «è servita come capro espiatorio all’assassino, che ha agito, ovviamente senza timbrare il cartellino, proprio solo quando lei era presente». Dubbi ragionevoli, nonostante i quali Bonino è stata comunque condannata. «Non riesco nemmeno ad immaginare con quali motivazioni - ha concluso Pisoni -. So solo che ognuno di noi potrebbe essere condannato all’ergastolo non dico oltre ogni ragionevole dubbio ma addirittura senza alcuna prova né movente».