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S’io fossi Conte non farei nessun partito. So che è difficile non farsi sopraffare da quella sindrome di Stendhal che è abitare palazzo Chigi ( ed ora Villa Pamphili, come residenza estiva), soprattutto se non si possiedono quegli anticorpi necessari per resistere che solo una lunga navigazione per le acque della politica possono darti. So che il mondo visto da lì è un po’ come il Regno di Francia visto da Versailles, pieno di paggi e maggiordomi, di saloni dei balli decorati a festa perpetua, di telecamere puntate perennemente sulla tua faccia, di giornali che aprono e chiudono col tuo nome, di potenti della terra che ti danno il tu, di potenti dell’Italia che fanno l’anticamera per te. Insomma: puoi tirare un morso alla Storia e tutto questo perché sei bravo tu. Sei bravo e non ti passa neanche per un momento per la testa che sei stato anche molto fortunato. I precedenti - quelli recenti, perché in passato gli anticorpi c’erano e aiutavano a mantenere i piedi ben piantati per terra - illustrano la sindrome con dovizia di particolari: vogliamo ricordare Monti e l’epopea effimera del suo partito, la cui nascita gli è forse costata la presidenza della Repubblica ( mentre è andata bene agli Italiani con Sergio Mattarella)? Ma anche il più professionale Renzi, che pure non seppe sottrarsi alla letalità della sindrome, pensando di avere in tasca una volta per sempre il 41% dei voti degli italiani conquistati alle Europee, con gli esiti che conosciamo perché sono solo dell’altro ieri. È che risulta difficile, lo capisco, non pensare di avere il mondo in mano quando attorno hai tanti panetti di burro in cui riesci ad affondare il dito senza trovare resistenza e il rumore di fondo ti dice: «Fatti avanti, stanno aspettando te. È un popolo di centristi, liberali, cristiani ed ortodossi, moderati, gente che è senza una casa e un leader, che aspetti?». Le grandi testate sono lì a fare il coro, in prima fila il grande vecchio Scalfari. I grandi sondaggisti ti accreditano un 14% craxiano dei tempi belli. Allora, che aspetti ancora a fare il partito? Per squisito senso di solidarietà pugliese direi al professor Giuseppe Conte di pensarci un momento. Per un paio di ragioni tra loro collegate che val la pena di richiamare. La prima: ricordare che in una stagione in cui è defunta la forma- partito ( una prece e pace all’anima sua) è vero che la notorietà diventa automaticamente consenso, ma si tratta di un consenso effimero, che si sgonfia appena si viene oscurati ( vedi il dimagrimento repentino di dieci punti del “Capitano” pentafelpato Salvini). La pandemia ha aggiunto un di più alla solita presenza nei media del Presidente del Consiglio, rappresentato dalla comunicazione istituzionale addirittura priva, per evidente necessità dettata dall’emergenza, del contraddittorio dell’opposizione. Il consenso resterà fintantoché Conte rimarrà presidente del Consiglio. Ma quale tra i suoi sodali di maggioranza continuerebbe ancora a sostenerlo se si vedesse minacciato direttamente? E questo è il secondo punto: non è che un nuovo partito di area governativa i consensi li prenda fuori da quel cesto. Pagherebbero pegno i Cinque Stelle, il Pd, lo stesso Renzi, cedendo ognuno un pezzo di consenso, e anche qualcun’altro fuori dalla maggioranza. Che glielo lascino fare può anche essere, ma è poco probabile. È più verosimile che al primo fruscìo di movimenti di truppe in Parlamento potrebbe venire voglia a qualcuno fra i sodali di tagliare il ramo dove sta seduto il premier. S’io fossi Conte, allora, come non sono e non fui, me ne starei tranquillo a governare, che già ce n’è per due vite, lasciando stare le sirene sinuose di sondaggi e prendendo il vaccino contro la sindrome di Stendhal. Che poi, se aspetta ancora un po’, sarà un intero movimento a consegnarsi a lui.