PHOTO
Cartabia
Oltre alla prescrizione, per la quale è stato scelto un sistema a tre vie, la riforma Cartabia fa ampiamente discutere anche in ordine al tentativo di restringere le maglie criteriali di accesso al secondo grado di giudizio.
Già la riforma Orlando – con l’introduzione della locuzione “specificità dei motivi” in seno all’art. 581 c. p. p. – aveva limitato le impugnazioni dei provvedimenti emessi all’esito del primo grado di giudizio ed ora l’attuale Legge Delega, ancora in discussione, sta tentando di introdurre un secondo ed ulteriore criterio che richiede la “puntuale enunciazione dei motivi” in seno all’atto di ricorso.
Sul tema, il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, il collega Gian Domenico Caiazza, ha recentemente manifestato la propria preoccupazione, sottoscritta dallo scrivente, che la riformulazione dell’art. 581 c. p. p. – con l’introduzione di ulteriori avverbi ed aggettivi – rischi di tradursi in un restringimento delle maglie di accesso al secondo grado di giudizio, offrendo alla magistratura uno strumento con il quale dichiarare inammissibili i ricorsi.
Tali censure sono tutt’altro che infondate.
Come noto, è desiderio espresso da tempo dalla magistratura quello di limitare l’accesso al secondo grado di giudizio e, non a caso, la riforma Cartabia – così come licenziata in prima battuta dalla Commissione Lattanzi – rischiava di trasformare il secondo grado di giudizio in un gravame a critica vincolata. Già in passato chi scrive aveva espresso preoccupazioni in tal senso, evidenziando come le modifiche proposte dalla Commissione Lattanzi, in ordine all’istituto dell’Appello, rischiassero di creare un “terremoto” in seno all’Ordinamento giudiziario, che vive oramai di anni e anni di stratificazioni di articoli ed interpretazioni, nei quali il secondo grado di giudizio è istituto ampiamente accessibile e vanto di un sistema garantista come quello nostrano.
Oltre tutto è anche nota la volontà estremamente deflattiva della riforma in commento, che ha l’ambizioso e quanto mai difficile scopo di ridurre i tempi della giustizia, dal momento che l’ottenimento degli interi fondi Europei destinati all’Italia ( che si ricorda ammontano a circa 191 mld!) è vincolato al successo della riforma stessa.
Nel perseguire tale scopo, il legislatore ha, tuttavia, talvolta voluto o dovuto sacrificare i diritti processuali delle parti, come nel caso di specie dove vi è l’ennesimo tentativo di restringere le maglie di accesso all’appello, sul quale, come anticipato, era già intervenuta la riforma Orlando, introducendo un nuovo criterio di ammissibilità che già soddisfa ampiamente la necessità che l’atto di impugnazione sia strettamente ancorato al provvedimento impugnato, esponendo le proprie ragioni con specificità.
Di parere opposto, il primo Presidente Emerito della Corte Suprema di Cassazione, Giovanni Canzio, il quale rassicura che il tentativo di modifica è solo e puramente volto a rendere l’atto di appello specifico, pena l’inammissibilità, ricordando come sia contrario alla natura del nostro ordinamento e alle finalità dell’appello rendere quest’ultimo un gravame a critica vincolata.
Il Presidente Emerito continua affermando che l’intervento riformista si limita a positivizzare quanto già sostenuto dalla stessa Suprema Corte nella sentenza Galtelli del 2016.
È pacificamente accettabile quanto sostenuto dal presidente Canzio sulla natura dell’atto di appello e sulla necessaria specificità dei motivi; tuttavia, chi scrive, condividendo quanto sostenuto anche dal collega Domenico Caiazza, ritiene che il principio di specificità abbia già trovato piena concretizzazione ed esplicazione con gli emendamenti introdotti dalla riforma Orlando.
Pertanto, l’attuale modifica oggetto di discussione rischia solamente di trasformarsi in un cavallo di Troia dotato di ampia discrezionalità, a mezzo del quale far passare nuovi e più stringenti criteri di valutazione dell’impugnazione. Il rischio è quello di aumentare vertiginosamente l’inammissibilità dei ricorsi, i quali risultano già ampiamente vagliabili sotto la lente dell’art. 581 c. p. p..
È importante lo sforzo dell’Unione delle Camere Penali: in rappresentanza dei penalisti tutti, fa passare chiaramente il messaggio che i diritti delle singole posizioni processuali non sono sacrificabili in virtù di una ragione deflattiva. Questa finalità – come chi scrive ha ampiamente sostenuto in più sedi, anche istituzionali – va ricercata in investimenti strutturali dell’intero sistema giustizia, in particolare apportando nuovi fondi e, soprattutto, organico, come la riforma ha tentato di effettuare in maniera claudicante con l’istituzione dell’Ufficio del processo, sulla cui efficacia vi sono dubbi non indifferenti.
Ad ogni modo, sarà certamente interessante tornare sul tema prossimamente, quando i lavori nelle commissioni si saranno sviluppati ulteriormente, auspicando che il presidente Caiazza riesca a far valere le autorevoli voci di tutti gli avvocati penalisti.