A un certo punto della sua monumentale The Life of Reason, or the Phase of Human Progress, il filosofo e scrittore spagnolo George Santayana annota che “ quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”. E’ la frase che potete leggere, incisa in trenta lingue, sul monumento nel campo di concentramento di Dachau.

Dachau è un nome che si vorrebbe poter dimenticare: uno dei simboli dell’orrore infinito; proprio per questo dovrebbe essere inciso nella nostra memoria, come la frase di Santayana nel monumento in quel “campo”, che di infinito orrore trasuda.

Dachau è il primo lager nazista: voluto e aperto da Heinrich Himmler, il diretto organizzatore, assieme a Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann, della “soluzione finale” della questione ebraica all’origine della Shoah.

Catturato dagli inglesi, Himmler, piuttosto che lasciarsi processare e finire giustiziato come altri criminali nazisti, preferisce uccidersi con il cianuro. Heydrich muore a Praga, nel giugno del 1942, per le ferite riportate dopo un attentato dei partigiani cecoslovacchi. Eichmann, come altri criminali nazisti ( per esempio il famoso “dottor morte” Joseph Mengele), grazie a falsi documenti procurati dal vicario di Bressanone Alois Pompanin, riesce a fuggire in Argentina. Nel 1960 il Mossad israeliano riesce a prelevarlo e portarlo in Israele. Al termine di un celebre processo, “condannato a morte per aver spietatamente perseguito lo sterminio degli ebrei”, viene impiccato il 31 maggio 1962 nel carcere di Ramla.

Torniamo a Dachau. Lo “aprono” il 22 marzo del 1933. Sulla Munchner Neuesten Nachrichten, Himmler scrive di suo pugno: “ Verrà aperto nelle vicinanze di Dachau il primo campo di concentramento. Abbiamo preso questa decisione senza badare a considerazioni meschine, ma nella certezza di agire per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio”.

Dachau serve da modello per tutti gli altri “campi” di sterminio. E’ la “scuola” per i macellai nazisti: il luogo del terrore e dell’orrore senza fine. A Dachau transitano circa duecentomila persone; secondo i dati raccolti nel Museo del “campo”, almeno 41.500 deportati vengono uccisi. Quei poveretti, sono per lo più ebrei; ma ci sono anche zingari, omosessuali, comunisti, radicali, disabili, devianti in genere. Sono costretti a percorrere una larga strada, ordinata e pulita con maniacale tedesca cura, la Lagerstrasse. Al termine la Jourhaus, ovvero “la porta dell’inferno”: attraversata da un grande arco d’ingresso al campo, chiuso a sua volta da un cancello in ferro battuto, e sopra la famigerata scritta: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Una scritta che troveremo poi in altri lager, simbolo della malvagità nazista.

Tra il 1933 e il 1945 i nazisti costruiscono circa ventimila campi di concentramento: in alcuni, le vittime sono impiegate ai lavori forzati; altri sono di “transito”. Poi ci sono quelli costruiti per l’eliminazione di massa. I nazisti e i loro complici assassinano oltre tre milioni di persone nei soli campi di sterminio. Per poter condurre a compimento la cosiddetta “soluzione finale” realizzano numerosi lager in Polonia, il paese con il più alto numero di cittadini ebrei. Il primo è quello di Chelmo, apre nel dicembre del 1941. Qui gli ebrei e i rom sono sterminati con il gas di scarico all’interno di furgoni appositamente modificati. Nel 1942 entrano in funzione i “campi” di Belzec, Sobidor, Treblinka. I nazisti concepiscono e fabbricano le camere a gas per rendere più veloce ed efficiente lo sterminio. Ad Auschwitz e Birkenau “lavorano” ininterrottamente quattro enormi camere a gas, ogni giorno sono così uccisi seimila ebrei.

Dachau è l’unico “campo” a restare in funzione per tutti i dodici anni del regime nazista. In breve tempo dire Dachau equivale a paura e terrore, abominio e orrore: dai camini dei forni crematori si disperdono nel vento le ceneri; ogni giorno migliaia di sventurati sono scaricati dai vagoni dei treni merci; una volta entrati nel “campo”, non usciranno più: vengono fatti scendere dalla “Judenrampe”, “selezionati”, quasi tutti portati diretta- mente alle “docce” ( così i nazisti chiamano le camere a gas). E l’odore della carne bruciata impregna l’aria, lo senti dovunque, anche oggi hai l’impressione di sentirlo. Annota Hannah Arendt, mentre segue il processo Eichmann: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso”. E anche questa “normalità, fa parte dell’orrore.

A questo serve il Giorno della Memoria: è un riconoscere, non dimenticare questa terribile storia; non accettare questa “normalità” che tanti, allora accettarono. Si potrà obiettare che la storia dell’umanità è una catena ininterrotta di sangue, dolore, orrore, terrore; che popoli sterminano altri popoli da quando esiste l’uomo; e per restare ai nostri tempi: i crimini staliniani, quelli della Cina di Mao; e poi Srebrenica, i macellai alla Slobodan Milosevic, Ratko Mladic, Radovan Karadzic; i massacri di Pol Pot in Cambogia; quelli in Ruanda, gli stermini ignorati nella cosiddetta Africa; Aleppo infine… Tutto vero, giusto.

La Shoah però è un evento unico. Non si vuole stabilire una gerarchia del dolore, una classifica dell’orrore più orrore di un altro. Il fatto è che mai, nella storia dell’umanità si è progettata con freddezza e determinazione, lo sterminio di un popolo in quanto tale. Mai si è pianificata questa eliminazione, studiando e cercando le formule dei gas più “efficaci”, progettando i ghetti nelle città occupate, costruendo i lager, predisponendo la complessa rete dei trasporti. Un orrore fatto sistema; questa la differenza.

 

Primo Levi, uno dei pochi che ha fatto “ritorno” ci ricorda: “ Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: ‘ comprendere’ un proponimento o un comportamento umano significa ( anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui… Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.

Comprendere è impossibile, conoscere è necessario. Ecco perché la memoria; e perché giorni alla memoria dedicati: “ quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”.