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Guido Bodrato, Dc, classe 1933: il 27 marzo prossimo compirà 85 anni. A metà degli anni ‘ 70, assieme a Corrado Belci, Luigi Granelli e Giovanni Galloni, ha fatto parte della “banda dei 4”, termine mutuato dalla Rivoluzione culturale avviata da Mao Tsedong e poi rovesciata come struttura di potere popolare. Meno enfaticamente, la banda scudocrociata identificava i migliori cervelli in circolazione che stazionavano all’ombra di Aldo Moro. In quel livido marzo di quarant’anni fa, Bodrado festeggiò il suo compleanno più amaro: undici giorni prima la Brigate Rosse avevano rapito l’allora presidente della Dc sterminando la sua scorta. Quattro decenni hanno inevitabilmente cambiato la prospettiva di quell’atto terroristico che segnò l’apogeo dell’attacco “al cuore dello Stato”. Ma Bodrato conserva il sentimento e la memoria di una cesura che fu allo stesso tempo, politica, storica, culturale e personale. Stroncò la vita di Moro, immerse l’Italia negli Anni di piombo, pose una pietra tombale sulla stagione del dialogo volta a realizzare la cosiddetta “democrazia compiuta”, quella dell’alternanza: finissima tessitura politica morotea, strappata e rimasta incompiuta per come era stata concepita nella mente del suo creatore.
«E’ passato tanto tempo, sono state dette e scritte moltissime cose», sussurra Bodrato riandando a quesi terribili 55 giorni di prigionia che poi portarono al martirio di Moro. «Quando ci comunicarono la notizia, stavamo entrando in Parlamento per il voto di fiducia al governo Andreotti. Fu un colpo durissimo».
Ma lei quale fu la prima cosa che pensò: hanno vinto i terroristi oppure c’è la vita di un amico in pericolo mortale?
«Fu impossibile selezionare sentimenti così netti in quel momento. Pensai alla scorta che era stata distrutta, assieme ad altri amici ci domandavamo se Moro era morto nell’attentato oppure no. Fu un miscuglio di emozioni: grandi e tremende tutte».
E magari la principale era l’angoscia per quanto stava avvenendo e i pericoli che dischiudeva...
«Per forza. Però vede, le voglio dire una cosa. A quarant’anni di distanza, molti si rifanno al rapimento di Moro come se quell’atto segnasse l’inizio dell’incubo terrorista. Non è così. Da tempo infatti nella realtà italiana incubava la degenerazione della violenza politica, dalla piazza all’omicidio politico. Le cose erano già accadute, i morti c’erano già stati. Il rapimento Moro rappresentò un salto di qualità e costrinse tutti ad interrogarsi sul suo significato, sulla sua valenza».
Cosa accadde in quei primi momenti?
«Ci riunimmo subito tutti a palazzo Chigi per valutare la situazione, decidere cosa fare e come reagire. Si sovrapponeva il fatto che stavamo per votare la fiducia al governo».
Ecco, appunto: la fiducia al governo. Non aveste subito la percezione che fosse quello l’obiettivo politico delle Br: sabotare l’intesa Dc- Pci?
«Guardi, a questa distanza temporale c’è il rischio di mischiare le valutazioni fatte allora a caldo con quelle successive. Certamente la prima cosa che cercammo di capire era cosa significava il rapimento: se fosse un atto chiuso in sè oppure il segnale d’avvio di una strategia di tipo insurrezionale. Adesso, a tanti anni di distanza, è possibile mettere in ordine le cose, allora non era così».
Davvero pensaste che l’Italia poteva diventare terra rivoluzionaria?
«Ma non era forse questo l’obbiettivo dei terroristi? Nella strategia delle Br c’era la convinzione di essere l’avanguardia di una rivoluzione che doveva nascere da una insurrezione. Cosa dovevamo fare? Tra le proteste dei Radicali e dell’estrema sinistra, optammo per un dibattito di fiducia molto veloce. Ma c’era da affrontare un’emergenza nazionale».
Era l’attacco al cuore dello Stato...
«Così si è detto dopo. In quel momento c’era il rapimento di Moro: anche lui stava arrivando a Montecitorio per la fiducia. Tutti sapevano che si trattava di una discussione dall’esito assai incerto. La mia interpretazione - che ho raccolto in un libro scritto assieme a Belci e credo sia l’unica testimonianza di parte democristiana - è che il rapimento di Moro ha avuto come effetto quello di indurre il pci a votare una fiducia che probabilmente non avrebbe votato. L’intenzione brigatista era stroncare la politica di incontro tra Dc e Pci e nel tempo medio l’obiettivo fu raggiunto. Ma nell’immediato, creando appunto un’emergenza terroristica, l’effetto fu di spingere le principali forze politiche ad unirsi per fronteggiare quel tipo di pericolo, tralasciando di affrontare qualunque altra questione politica e sociale. E’ una contraddizione, qualche volta dimenticata. Ma ci sono testimonianze dirette che la confermano. I comunisti si aspettavano alcuni cambiamenti nella compagine governativa che invece non ci furono. Senza il rapimento Moro non avrebbero votato a favore del governo. Ricordiamo tutta la polemica interna al Pci se stare oppure no in mezzo al guado, se stare dentro o fuori della maggioranza».
A quarant’anni di distanza, lei conferma la scelta della fermezza, del no alla trattativa? Oppure bisognava agire diversamente?
«Un tema che non si è mai posto. Si trattava di salvare la vita di Moro e anche di respingere la possibilità di un riconoscimento politico alle Br. Io non ho mai dimenticato che prima del rapimento c’erano già stati dei morti; che gli attentati c’erano e poi sono proseguiti; non posso dimenticare l’assassinio di Ruffilli seppur avvenuto successivamente; non posso dimenticare gli amici colpiti dai terroristi a Genova, a Milano a Torino. Colpiti perché democristiani. Guardi, chi insiste sulla trattativa ignora la realtà delle cose. Io non posso farlo. Sicuramente lo Stato era impreparato; sicuramente c’era chi approvava l’azione delle Br. Ricordo che Liberazione fece un inserto su quella vicenda che io ho conservato. Una parte della popolazione italiana appoggiava le Br. Gli studenti della mia città giustificavano il rapimento di Moro perché era l’Uomo del Regime che si era arricchito sulle sciagure del Paese; così come a destra c’erano persone che sostenevano che Moro se l’era voluta. Il Paese era tutt’altro che unito. La Dc cercò una soluzione ma a patto che non apparisse come un riconoscimento all’azione del terrorismo brigatista perché questo non avrebbe fatto altro che allargare il bacino della violenza senza peraltro salvare la vita di Moro. Le ricostruzioni in base alle quali la fermezza per il Pci era il riconoscimento del senso dello Stato e per la Dc il tradimento del senso dell’amicizia non mi appartengono».
C’era anche una parte del Paese che era agostica: nè con lo Stato né con le Br...
«Come dice lei: era agnostica. Guardi una parte dell’Italia così c’è sempre stata. C’era ieri e c’è anche oggi. Chi possiede un minimo di conoscenza della cultura politica di Moro sa che di questi sentimenti del profondo dell’Italia lui era assolutamente consapevole. Era maestro ed è rimasto insuperato in quel tipo di analisi. Chi si considera moroteo sa benissimo che le cose non sono mai del tutto limpide, che ci sono sempre zone d’ombra e aree di compromissione nell’opinione pubblica».
E’ senso comune sostenere che dopo l’uccisione di Moro l’Italia non fu più la stessa. Che quei 55 giorni segnarono una cesura. Secondo lei cosa davvero cambiò nel profondo con l’uccisione del presidente della Dc?
«Siamo tutti d’accordo che è stato così, anche se poi ognuno declina quella consapevolezza in modo diverso. Certo, dopo l’uccisione di Moro non è finita la Storia: le nuove generazioni che non hanno vissuto quella tragedia non capiscono nemmeno il problema se è posto così. Per quel che era un processo avviato verso quella che si definiva una democrazia compiuta, per quello che era il sottilissimo filo che legava Moro e Berlinguer, certamente la sua barbara uccisione ha troncato quel filo, ha azzerato quel processo. C’è stata una profondissima svolta nella vita politica del Paese, penso nessuno possa negarlo. Naturalmente non è finita la politica. Chi non condivideva quel disegno non si è sentito affatto messo fuori gioco: al contrario. E’ una innegabile constatazione: una certa politica è stata colpita al cuore. Una politica che in larga parte si fondava sulla possibilità di costruirla, di interpretarla, di darle un’anima da parte di Aldo Moro. Lui ne era il garante e sapeva di esserlo. Non si può dire che morto lui è finita la storia democratica italiana: sicuramente però ha perso il regista di una partita politica fondamentale».
E adesso Bodrato, cosa rimane? Che Italia c’è del dopo Moro?
«L’Italia è cambiata molto, e molto è cambiato il mondo. La politica fa fatica a interpretare la realtà. Per esempio: il mondo digitale che ci circonda la mia generazione non lì’ha conosciuto e fa fatica ad adeguarvisi. Ma non c’è dubbio che ha una influenza decisiva nel disegnare la realtà che viviamo e la politica fatica a interpretarla. Non ci sono più le grandi fabbriche, è scomparsa o quasi la classe operaia. Ancora nel 1978 gli scioperi si decidevano davanti ai cancelli di Mirafiori: ora Mirafiori non c’è più. Sono in atto mutamenti profondi. Se la politica li affrontasse con lo sguardo lungo, considerando il dialogo - ecco il punto - una forza della politica e non espressione della sua debolezza, se lo facesse senza posizioni dogmatiche, e Moro era tutto fuorché un dogmatico, allora probabilmente ne verrebbe un vantaggio per tutti. Si è persa la capacità di legare una visione più generale - per Moro direi anche culturale e religiosa - della vita con la politica».
Cioè si è persa la capacità di pensare la politica come uno strumento per governare la società?
«Sì, dice bene: governare. Ma stiamo attenti. Oggi governare significa conquistare il potere ed esercitarlo fino in fondo e senza limiti. Per Moro non era assolutamente così. Le Br lo consideravano l’espressione dello Stato delle Multinazionali, ed invece è noto che Moro era tutt’altro. Io non mi considero assolutamente un interprete del suo pensiero, però dico questo. Manca Moro come persona, ovviamente, anche se oggi sarebbe centenario. Manca in particolare la sua capacità di riflessione, manca vorrei dire il Moro “montiniano”. Moro ha rappresentato l’espressione più compiuta di una generazione che considerava la politica non mera conquista del potere. Era un politico laico e non leninista, nel senso che la dimensione cattolica serviva ad esaltare la sua laicità e non a soffocarla, dunque era soprattutto laico liberale. Si è persa quella dimensione della vita democratica che in lui era vivissima. Oggi c’è il rischio che votare non significhi più affermare la democrazia bensì addirittura uscirne. Anche in Turchia e in Russia si vota: ma è un voto plebiscitario. Abbiamo perso la capacità di riflettere sulle radici più profonde della democrazia, che si esprime, è vero, nel voto ma può anche finire per avere un significato opposto. Ebbene la capacità di Moro era di arrivare al fondo delle cose, di capire il senso degli accadimenti senza lasciarsi trascinare dalla dimensione del momento. Amava approfondire, insomma. Oggi chi lo fa?».