PHOTO
roma
La “guerra per bande togate” - che è un’espressione forte usata non dal Dubbio di Carlo Fusi di fronte ai clamorosi sviluppi della vicenda di Luca Palamara ma dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, non certamente sospettabile di pregiudizio o animosità verso la magistratura- rimanda un po’ al vecchio proverbio sul lupo che perde il pelo ma non il vizio.
I peli nel nostro caso sono quelli dello stesso Palamara - appena espulso per violazione del codice etico dall’associazione nazionale dei magistrati, di cui fu anche presidente prima di approdare al Consiglio Superiore nel Palazzo dei Marescialli- e degli altri uomini in toga che hanno partecipato con lui alla gestione correntizia delle carriere. Alcuni dei quali - una ventina- sono già sotto osservazione al Consiglio Superiore e potrebbero incorrere in guai disciplinari e persino giudiziari.
Il vizio, sempre nel nostro caso, è quello dell’associazione, o sindacato, dei magistrati di reclamare praticamente autoriforme della magistratura, quando ne esplodono i problemi, considerando quelle elaborate nella sola sede legittima, che è il Parlamento, una prevaricazione, una punizione, o una “resa dei conti”, come ha scritto Giancarlo Caselli, fra la politica che vuole riprendersi il primato perduto e le toghe che glielo hanno in qualche modo sottratto.
Della permanenza di questo vizio, o tentazione, deve essersi accorto il vice presidente del Consiglio Superiore Davide Ermini, vice di Sergio Mattarella nel Palazzo dei Marescialli, se ha tenuto a ricordare nei giorni scorsi, in una intervista al Corriere della Sera, che “come azzerare il peso delle correnti all’interno del Csm è decisione che spetta al governo e al Parlamento”, non quindi all’associazione composta dalle correnti e convinta - par di capire- di avere fatto tutto il necessario e possibile espellendo Palamara: cosa che il già citato Caselli ha definito “colpo di reni”.
Temo che a far maturare nel vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura il sospetto che ancora una volta le toghe pensino non a una riforma ma a un’autoriforma sia stata la fretta con la quale, mentre l’associazione espelleva Palamara, il presidente Luca Poniz le rivendicava il merito di essersi guadagnato il consenso del ministro della Giustizia a buona parte delle proposte da essa formulate. E ciò a cominciare, naturalmente, dal veto ad ogni forma di sorteggio per la designazione dei consiglieri togati, neppure per una preselezione di candidati da sottoporre poi all’elezione di cui parla esplicitamente, e vincolativamente, l’articolo 104 della Costituzione, tanto decantato e difeso dagli organismi rappresentativi dei magistrati.
Purtroppo la forza delle resistenze ad una riforma vera della magistratura e, più in generale, del sistema giudiziario, capace di sradicare brutte abitudini e quant’altro, non sta solo nell’associazionismo correntizio e parapolitico quale è maturato negli almeno ultimi trent’anni, ma nel fatto che il Ministero della Giustizia, a dispetto della natura tutta o prevalentemente politica di chi lo guida di volta in volta, nella successione dei governi e delle relative maggioranze, è di fatto nelle mani dei magistrati. La burocrazia, o l’alta burocrazia di quel dicastero è tutta giudiziaria. E non vi è ministro che possa resisterle più di tanto. Immagino già una smorfia di dissenso del guardasigilli in carica Alfonso Bonafede.
Nei cui riguardi non mi fa veloglielo assicuro- uno scambio, diciamo così, forte di opinioni avuto nella scorsa legislatura, nel Transatlantico di Montecitorio ancora aperto alla stampa parlamentare, per avere egli sostenuto la sera prima in un salotto televisivo che noi giornalisti, specie quelli pensionati, fossimo dei “lobbisti”, in grado meglio di altri di rappresentare gli interessi di aziende, settori e quant’altri, fra le anticamere delle commissioni e dell’aula, nel traffico di emendamenti, sub- emendamenti e varie a leggi finanziarie e provvedimenti specifici. Non ci lasciammo nel migliore dei modi, in quell’occasione, perché l’allora semplice deputato Bonafede mi disse che avrebbe ribadito le sue convinzioni alla prima occasione che gli fosse capitata. Lui è fatto così: combattivo, diciamo. Ebbene, con la mia purtroppo vecchia esperienza professionale e di rapporti personali, vorrei assicurare Bonafede di avere visto condizionati inconsapevolmente dalla burocrazia giudiziaria del suo dicastero fior di ministri con esperienze universitarie e forensi alle spalle maggiori delle sue per ragioni quanto meno anagrafiche.
Penso, per esempio, al compianto Giuliano Vassalli. Che da ministro della Giustizia, tra l’autunno del 1987 e i primi mesi del 1988, propose e fece approvare rapidamente dalle Camere una legge di disciplina della responsabilità civile dei magistrati che vanificava di fatto la via libera a quella responsabilità data a larghissima maggioranza dagli elettori in un referendum promosso dai radicali e sostenuto con particolare vigore dal Psi - il partito dello stesso Vassallisull’onda della vicenda di Enzo Tortora.
Che era stato sbattuto in galera, in una retata di centinaia di camorristi poi risultati più presunti che veri, ed aveva dovuto subire il supplizio di un processo destinato a restituirgli dopo anni l’onore ma non la salute. Egli morì di tumore proprio nel 1988, pochi mesi dopo l’approvazione della legge Vassalli, all’ombra della quale molti altri errori giudiziari sarebbero stati compiuti senza danni, o quasi, per i loro responsabili.