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Già di incerto colore - fra il giallorosso applicatogli per la partecipazione di tutta la sinistra rappresentata in Parlamento e il giallorosa preferito da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, forse più per rispetto della squadra di calcio della Roma e dei suoi tifosi che per diffidenza verso il Pd e i “liberi e uguali” dei Grasso, Bersani e compagni- il secondo governo di Giuseppe Conte è sempre più di incerta denominazione politica.
Ezio Mauro su Repubblica gli ha attribuito una variante delle “convergenze parallele” assegnate al terzo governo di Amintore Fanfani. Che nel 1960, dopo la rovinosa caduta di Fernando Tambroni fra tumulti di piazza e dimissioni di ministri, preparò il centro- sinistra, col trattino, guadagnandosi l’astensione dei socialisti. I quali sarebbero entrati in modo “organico” nella maggioranza e nel governo con Aldo Moro solo nell’autunno del 1963. Di “parallele” nel secondo governo Conte l’ex direttore di Repubblica ha trovato non le convergenze ma addirittura le “identità”. Che sarebbero quelle dei grillini, dal nome del fondatore, garante e quant’altro dei Movimento 5 Stelle, del Pd, del partito improvvisato da Matteo Renzi proprio mentre il secondo governo Conte muoveva i primi passi, e dei già citati “liberi e uguali” di provenienza mista, fra lo stesso Pd e la sinistra di Niki Vendola, per non andare più indietro con Fausto Bertinotti, Armando Cossutta, Oliviero Diliberto e altri ancora, ormai appartenenti alle preistoria, o quasi, della sinistra sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino, emblematico del comunismo.
Temo che il mio amico Ezio abbia ecceduto a scrivere di “identità”, non volendosi limitare forse alle troppo datate “convergenze” dei tempi di Aldo Moro alla segreteria della Dc, e di Fanfani a Palazzo Chigi.
“Identità” mi sembra francamente una parola troppo grossa per i partiti dell’attuale maggioranza, a cominciare dal più consistente, essendo generalmente chiamata proprio “d’identità” la crisi che esso attraversa da quando, dopo le elezioni politiche del 2018, fu costretto dalle circostanze ad allestire un governo, pur di non tornare immediatamente alle urne, con uno dei suoi due maggiori partiti antagonisti nella campagna elettorale: la Lega di Matteo Salvini, diventata addirittura la forza di trazione del centrodestra.
E l’anno dopo, rottosi il rapporto con una Lega che ne aveva dimezzato i voti nelle elezioni europee portandoli dal 32 e più al 17 per cento, i grillini con la medesima disinvoltura identitaria - se mi permette Ezio Mauro- si allearono con l’altro partito antagonista della campagna elettorale del 2018: il Pd non più di Renzi ma di Nicola Zingaretti, spinto tuttavia a quell’accordo dallo stesso Renzi.
Che si era stancato di mangiare pop- corn sui banchi dell’opposizione, o si era spaventato - disseper uno scenario di elezioni anticipate dominato da una Lega già ben oltre il 34 per cento dei voti guadagnato nel rinnovo del Parlamento europeo. Parlare, ripeto, di “identità” di fronte a questa successione di fatti, credo, incontestabili mi sembra davvero troppo.
Più che le identità, si sono avvicinate, incontrare e unite le convenienze di potere, a cominciare da quella di tenere in vita ad ogni costo le Camere elette due anni fa, delegittimate l’anno dopo dai risultati del voto europeo e in via di ulteriore o definitiva delegittimazione col referendum del 20 settembre sulla riduzione - che appare scontata- del numero dei seggi parlamentari: da 630 a 400 quelli di Montecitorio e da 315 a 200 quelli elettivi del Senato.
Poi ci vorrà molta buona volontà, e disinvoltura, ammesso e non concesso che la maggioranza e il secondo governo Conte riusciranno ad arrivarvi, a sostenere nel 2022 l’opportunità che siano queste Camere, appunto, nella vecchia composizione politica e numerica, ad eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale. Dove il nuovo presidente della Repubblica rimarrà sino al 2029, scavallando le elezioni politiche ordinarie del 2023 e del 2028. Credo che queste date solo ad elencarle siano più che sufficienti a darvi l’idea della temeraria prova nella quale il mio amico Mauro vede impegnata la maggioranza attuale delle “identità parallele”, propostasi addirittura di eleggere il capo dello Stato.
Con qualche ottimismo mi si potrebbe obbiettare che la crisi d’identità del maggiore partito o movimento dell’attuale Parlamento sarà o potrà essere risolta dagli “Stati Generali”, come i grillini chiamano quelli che per le altre forse politiche sono i congressi. Ma, appunto, ci vuole ottimismo, molto ottimismo.
Già programmati per lo scorso mese di marzo, dopo la rinuncia di Luigi Di Maio alla carica di “capo” e la sua rimozione dalla guida della “delegazione” al governo, gli “Stati Generali” pentastellati sono stati rinviati all’autunno prossimo col pretesto dell’epidemia virale: pretesto, perché nel Movimento delle 5 Stelle confronti e decisioni sono digitali, per cui potrebbero bastare e avanzare i computer, fortunatamente immuni da coronavirus. Ma già la scadenza autunnale, coincidendo peraltro con le elezioni regionali e comunali, e il referendum confermativo della riduzione del numero dei seggi parlamentari, è stata messa in discussione. E sembra destinata a un rinvio.
D’altronde, di rinvii più che di decisioni sono costretti a vivere ormai ordinariamente la maggioranza e il governo, in Parlamento e fuori, per schivare gli ostacoli, per esempio, della riforma della giustizia, delle procedure per la definizione dei piani necessari all’accesso ai futuri finanziamenti europei per la ripresa, del ricorso al finanziamento già disponibile del potenziamento del sistema sanitario e via discorrendo. Di rinvio in rinvio, se ne perderà il conto.