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Antonio Scurati la scorsa settimana sul Corriere ci ha mitragliato con la nostalgia. Viene voglia di cantargli: Ahi quanto a dir qual era è cosa dura, questa Milano milonga e ricca e lieta che nel pensier rinova la clausura...
Dov’è finita la Milano sfavillante passerella per le sfilate d’alta moda, la capitale di settimane in cui ogni sabato prometteva un party diverso, la città intinta in un’ora sempre happy in cui il massimo che si poteva subire era il dilemma del Negroni sbagliato: oh barista, mio barista, perché c’abbandoni al brut e ci neghi il nostro terzo di gin quotidiano? È arrivato il contagio e tutto s’è portato via.
Ora i frignanti cinquantenni educati all’irrealtà televisiva si rigirano nei letti straziati dal domandare a chi hanno accanto un epocale come stai? e si acconciano scorati a dividersi dai loro monolocali arredati secondo l’ultima moda alla volta di code per comprare il pane in posti infrequentabili nella vita di prima, come quei “poveri minimarket gestiti con ammirevole laboriosità da immigrati cingalesi”. Affacciato alla finestra, Scurati guarda giù verso questi pellegrini di cammini oggi sconvolti ma non se la sente di deriderli o sminuirli perché tra poco, qualche secondo appena, sarà in fila insieme a loro. Come nascondere allora al proprio cuore la pietà, la comprensione, il compatimento per i suoi “ragazzi improvvisamente invecchiati, grandi e patetici con le loro scarpe da runner e le loro mascherine chirurgiche”? E come spiegare la dolce vita milanese alla figlioletta, figlioletta che soggiorna, ignara dell’' epoca del più lungo e svagato periodo di pace e prosperità goduto dalla storia dell’umanità'?
Non dispongo di una finestra che affacci su simili adolescenze sociali e sarà per questo che l’angolatura dalla quale scrive Scurati mi sembra guardare a un’età che non esisteva prima e continua a non esistere oggi. Un’angolatura che stenta ad avere un benché minimo senso della realtà e la cui la malinconia lirica non basta a coprire la natura intimamente conservatrice della cultura da cui proviene. Due esempi tra i tanti.
Scurati racconta i mancati appuntamenti con la grande storia di una torma d’adulti che nello sguardo spaventato del momento lasciano balenare l’anima di bambini deprivati. E deprivati è il termine che si usa per indicare un’altra torma di adulti, quella di chi non ha un alloggio, di chi ricorre a sistemazioni di fortuna per dormire, di chi si ripara tra dormitori e strutture di accoglienza, di chi vive in strada. Milano, secondo i dati Istat, è la città in cui si concentrano la maggior parte degli oltre 51000 senza fissa dimora d’Italia le cui povertà non si limitano all’assenza di una casa, ma investono l’intera sfera delle aspettative della persona. Individui che non accedono al mercato del lavoro, che non ricevono cure mediche con regolarità, che mangiano quando capita, che non dispongono di un accesso ai più elementari servizi igienici, che soffrono di privazioni affettive e che quindi con estrema difficoltà possono esercitare i loro diritti. Neanche quello di comparire tra i fragili adulti milanesi descritti sul Corriere.
Nello stato di cattività s’affaccia però almeno il laborioso commerciante straniero. Che non esce dallo statuto di scenografia insolita per strade eleganti ma sta lì con le sue vetrine sguarnite ma operose a testimoniare l’eterno fratello probo e ammirevole di noialtri vittime della brillantezza sventata di scaffali rimpinzati delle marche giuste. Lui la dolce vita l’ha vissuta se non altro nei suoi desideri e, abituato com’è alla fatica delle piccole ore, s’industria subito per arginare con intelligenza anche la pandemia.
Eppure non basta neanche lui a suggerire all’autore che quell’epoca pacifica e prospera non arriva neanche a comprendere, non esageriamo con un continente, ma neanche un paese, il nostro, né una città, la sua. L’età adulta alla quale l’epidemia ci dovrebbe educare c’era già prima, e così i suoi interrogativi, le sue disgrazie e gli sforzi che richiede. Il primo è stare bene accorti a non proiettare la propria superiorità morale quando si guarda al mondo dalla finestra: si vede altrimenti solo se stessi.