PHOTO
“Sono come svuotato, credimi, e ormai indifferente a quello che di nuovo, di infame, hanno detto. Bisogna che da fuori la battaglia non si spenga: li fa impazzire di rabbia. E i pazzi, prima o poi, come vedi, sbagliano. Ma hanno il potere, un potere tremendo, inumano. Impensabile, in democrazia. Solo tre categorie di persone ( ho scoperto) non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati”. Queste parole sono un estratto di una lettera che Enzo Tortora inviò dal carcere di Bergamo alla sua compagna Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione per la giustizia giusta Enzo Tortora, che ha raccolto tutte le altre nel libro “Enzo Tortora, Lettere a Francesca” ( Pacini Editore). L’abbiamo incontrata a margine di un incontro sugli errori giudiziari, organizzato a Civitavecchia dalla Camera penale locale, presieduta dall’avvocato Andrea Miroli.
Oggi Enzo Tortora avrebbe compiuto 90 anni, ma purtroppo trenta anni fa ci ha lasciati a causa di un tumore ai polmoni. Eletto deputato europeo e presidente del Partito radicale, ha combattuto fino all’ultimo per i diritti dei detenuti e contro una magistratura irresponsabile per i propri errori.
Francesca Scopelliti, cosa le manca di più di Enzo?
Di lui mi manca tutto come parte affettiva. Ma manca anche al Paese per il suo impegno nella battaglia per la giustizia, la mancanza della sua voce fa la differenza.
Lei, ricordando la tragica vicenda giudiziaria, preferisce parlare di “crimine giudiziario” invece che di errore. Perché?
Secondo me l’errore è un qualcosa che si compie per caso, ad esempio male interpretando un fatto. Nel caso di Enzo si può parlare di errore nei primi sei giorni dal suo arresto – ma non ci credo poi neanche molto – ma non è più sostenibile l’errore dopo il primo interrogatorio, quando gli inquirenti si accorsero di non aver acquisito alcun tipo di prova. L’unico elemento che avevano era una lettera che parlava dei centrini mandati a Portobello, contraddetta dalla lettera di risposta che aveva scritto e portato agli atti anche Enzo. A quel punto è chiaro che inizia un crimine: se ci fossero stati due magistrati onesti, impegnati solo nella ricerca della verità, avrebbero detto “Tortora ci scusi, abbiamo sbagliato”. E invece no: hanno deciso che Enzo doveva essere colpevole per forza. Tutta l’inchiesta giudiziaria e il processo di primo grado lo confermano.
Cosa è rimasto della battaglia di Tortora insieme al Partito Radicale e quanto ancora abbiamo da imparare?
Con grande tristezza la vicenda di Enzo non ha insegnato nulla alla politica che è troppo distratta e troppo chiusa: non vuole sentire, non vuole vedere o parlare. Lo conferma il fatto che oggi a 30 anni dalla morte di Enzo si preferisce non parlare di lui, o meglio: se lo si fa, se ne parla solo in termini professionali, come di un grande giornalista e conduttore televisivo. Ma non si accenna mai alla sua vicenda giudiziaria, non si ha il coraggio di dire che Enzo è morto di malagiustizia. Un Paese che non ha memoria non ha neanche un futuro. Quindi il caso di Enzo Tortora ha insegnato ben poco proprio per ottusità della parte politica. Non aspettiamo che capiti a noi quello che è accaduto a Enzo; facciamoci responsabili oggi per evitare che capiti ad altri. Per chi vuole capire, della battaglia di Enzo rimane tanto. A portarla avanti ci sono come sempre i Radicali, il mio impegno come presidente della Fondazione naturalmente non manca, e poi ho trovato dei compagni di viaggio straordinari che sono gli avvocati dell’Unione delle Camere Penali.