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Come Matteo Renzi commise nel 2016 l’errore di personalizzare il referendum sulla riforma costituzionale - che aveva almeno il pregio di una sua organicità- non aprendo ma spalancando le porte agli avversari, fuori e dentro l’allora suo partito, eccitati dall’idea di poterne abbattere la leadership, così Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio hanno commesso in questi giorni, volenti o nolenti, l’errore di trasformare in un referendum sulla loro alleanza di governo quello che doveva riguardare il 20 settembre soltanto la riduzione del numero dei seggi parlamentari. Sono due errori, diciamo così, paralleli.
L’esultanza di Zingaretti di fronte all’improvvisa consultazione digitale di meno di 50 mila militanti pentastellati, che almeno sulla carta hanno consentito la possibilità di estendere in periferia, rendendola addirittura strategica, l’alleanza tattica di governo stretta l’anno scorso col Pd all’insegna della eccezionalità e dell’emergenza anti- salviniana, ha moltiplicato in quello che si considera il maggiore partito della sinistra italiana le resistenze e i dubbi proprio sul referendum costituzionale. Si abbia almeno il buon senso adesso di votare no alla riduzione dei seggi parlamentari, ha sostanzialmente detto, per esempio, l’ex presidente del Pd Matteo Orfini tenendo che il sì segni la “resa” totale al Movimento 5 Stelle.
Il capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci, insoddisfatto anche della rinuncia del Pd a tutte le vertenze giudiziarie promosse contro i grillini prima dell’intesa di governo, e deciso per conto suo a promuoverne altre se fosse necessario, ha dato appuntamento a Zingaretti al congresso cui non potrà sottrarsi dopo il referendum e le elezioni regionali e comunali cui esso è stato abbinato: elezioni rimaste di incerto destino per il suo partito anche dopo la “svolta” del teorico sì della base grillina ad intese di carattere pure locale, che faticano ad essere realizzate per quanto adesso sostenute da Di Maio sino a intestarsele.
Penso che persino fra gli elettori rimasti attaccati al Movimento 5 Stelle dopo tutte le sconfitte seguite all’ormai irripetibile successo del 2018 stia crescendo in questi giorni la tentazione di farla pagare cara al gruppo dirigente che ha usato il 60 per cento dei meno di 50 mila militanti- ripetomobilitati al computer per cambiare letteralmente i connotati alla formazione politica nata dagli spettacoli di teatro e di piazza di Beppe Grillo, fra invettive, insulti e quant’altro. Figuriamoci come potrà crescere la voglia di una reazione negativa fra gli elettori del Pd, ma anche delle forze di centrodestra schierate per il sì a livello di vertice per inseguire curiosamente la demagogia anti- casta di Di Maio e amici.
Mi ha colpito, tra i forzisti, la felice concisione della risposta data dal senatore Lucio Malan, pur senza nominarla, alla presidente del gruppo della Camera Mariastella Gelmini schieratasi per il sì: «Mussolini nel 1929, in un’Italia di 40 milioni di abitanti, ridusse i deputati da 541 a 400. Ma sembrarono pochi anche a lui e nel 1939 li portò a 949 ( nominati da lui). Ora i grillini vogliono riportarli a 400, con 60 milioni di abitanti. Qualche commento? Il mio è: io voto no». E Malan si è risparmiato di confessare in pubblico anche la voglia di un no esteso all’alleanza fra il si di Zingaretti e il sì di Di Maio. Il rigetto elettorale dell’alleanza di palazzo quale fu quella raggiunto l’anno scorso fra piddini e grillini potrebbe ben determinare fra un mese il no referendario da tutti escluso sino a qualche settimana fa. E se così fosse, sarebbe la crisi, non foss’altro per l’incontenibile voglia di rivalsa dei vertici grillini contro un Pd ch’essi avvertirebbero insopportabilmente doppio. A quel punto cadrebbero tutte le remore, anche la paura di scendere ad una cifra in un altro Parlamento.
Se e come Mattarella riuscisse a tenere ancora in piedi la legislatura in caso di crisi, ingessandone tutti gli arti, sarebbe tutto da verificare, pur con le urgenze o emergenze imposte dall’epidemia, dalla crisi economica, finanziaria e sociale, dall’occasione imperdibile dei fondi europei per la ripresa disponibili dall’anno prossimo e di quelli per la sanità disponibili già adesso ma indigesti ai grillini, rimasti su questo versante sovranisti come i leghisti, gli alleati di governo della prima ora.
Se vincesse invece il sì referendario, l’alleanza tra Pd e grillini potrebbe tirare un sospiro di sollievo, ma non so francamente di quale e quanta durata perché le acque sia nel Pd sia nel Movimento 5 Stelle rimarrebbero ugualmente agitate: nel Pd, poi, agitatissime se nelle sette regioni e negli oltre mille comuni in cui si voterà il 20 settembre, con le urne affiancate a quelle del referendum, i risultati non fossero investibili da Zingaretti in una pace congressuale.
Già, una pace congressuale. Non dimentichiamo, dopo l’avvertimento di Marcucci, il congresso che comunque aspetterà Zingaretti nel Pd, dove fu eletto segretario in uno scenario politico ben diverso, e con l’impegno di non accordarsi con i grillini senza un preventivo passaggio elettorale a quel punto anticipato: l’opposto di quel che poi sarebbe accaduto. E volete che nessuno gli chieda o gli presenti il conto, tra una vertenza e l’altra di una maggioranza destinata alla continua sofferenza, essendo la sua debolezza nella intrinseca contraddittorietà? Mi sembra difficile.