«La repressione è stata la madre di tutti gli interventi. Ma nessuno ha ascoltato la comunità sana ed educante del territorio per capire le difficoltà con cui vive». Nel Parco Verde di Caivano tutto cambia perché nulla cambi, per chi ci abita. Come racconta Bruno Mazza, che nel cuore dell’abbandono ha piantato un seme di speranza con l’Associazione Un’infanzia da vivere.

Un anno dopo i fatti di cronaca che hanno mobilitato la politica nazionale, nella periferia Nord di Napoli sono arrivati i soldi, gli elicotteri e i militari. Ma quella resta «la periferia della periferia», un’area dove 10mila persone vivono nel «degrado assoluto», tra topi, immondizia e amianto. «Non c’è cultura, non c’è lettura, non c’è scrittura. Non ci sono infrastrutture, non ci sono fiorellini, non c’è un’altalena per i bambini», spiega Mazza. Non ci sono colori, nel mondo che costringe l’infanzia in una scala di grigi.

L’attività dei volontari è l’unico appiglio per i 6mila abitanti del Parco Verde, a cui bisogna aggiungere quelli degli altri quartieri, il rione Iacp e il “Bronx”, che invece restano invisibili ai riflettori che si sono accesi con il decreto Caivano, messo a punto dal governo dopo lo stupro di gruppo di due bambine nell’estate 2023. È la risposta dello Stato suggellata dalla visita di Giorgia Meloni, che accogliendo l’invito del parroco don Maurizio Patriciello è andata a Caivano due volte. La seconda pochi mesi fa, per l’inaugurazione del centro sportivo Delphinia, “bonificato” e riconsegnato ai cittadini dopo un intervento da oltre 10 milioni. «Faremo di Caivano un modello per la Nazione intera, dimostreremo che si poteva fare ed esporteremo quel modello in molte altre Caivano d’Italia», aveva scandito Meloni lo scorso maggio. Assicurando anche la lotta alla dispersione scolastica con l’arrivo di altri docenti.

Nelle parole di chi vive quei luoghi, però, quella promessa resta un miraggio vicino e impossibile da acciuffare. Ora il centro gestito dalla società dello Stato Sport e Salute è intitolato a Pino Daniele. Si trova a circa 700 metri dal Parco Verde ma per raggiungerlo bisogna attraversare una strada trafficata, all’uscita dell’autostrada. Servirebbe una navetta, ragiona Mazza. Ma il vero problema è che il programma di attività offerte dalla struttura sono a pagamento. E quasi nessuno può permettersele. Non i bambini del Parco Verde, che «passano 5-6 ore a scuola, le altre 10 nel territorio. E se per loro non c’è un’alternativa, non resta che la criminalità».

Le famiglie si danno da fare come possono. Mentre il degrado li inghiotte: i 758 alloggi del Parco Verde sono colpiti da infiltrazioni d’acqua e hanno l’amianto sui tetti. Oltre 200 famiglie considerate abusive sono in attesa di regolarizzare la loro posizione. Nell’area non è prevista la pulizia delle strade, non c’è la raccolta differenziata. Le piazze di spaccio si sono spostate poco più in là. E gli interventi per i quali sono stati finanziati 12 milioni non sono ancora stati realizzati. Un’infanzia da vivere è supportata dall’ente no profit Fondazione con il Sud, «altrimenti avremmo chiuso », dice Mazza. «Siamo qui da 16 anni, e negli ultimi 12 mesi non è cambiato nulla», ripete tra il baccano dei bimbi che giocano e studiano. Ci sono anche i ragazzi che arrivano dal carcere per la messa alla prova. I volontari si sono inventati i laboratori didattici e di cucina, il calcio, il basket e la pallavolo. Ma presto arriverà l’inverno, e bisognerà rinunciare anche all’attività all’aperto. Perché la palestra non c’è. Come non ci sono i libri. In compenso, nell’associazione, ci sono i pastelli e gli scivoli colorati a spazzare via una lunga storia di disagio e criminalità.

Bruno Mazza l’ha vissuta in prima persona, quando a soli 11 anni è stato sfollato a Caivano per il terremoto dell’80. Per sei anni 4mila persone hanno vissuto in baracche di ferro. Poi l’emergenza è stata messa a “sistema”. Il Parco Verde è diventato una sorta di “ghetto”. E per i bambini come Bruno, “respinti” anche dalla scuola, l’unico orizzonte è stato il carcere. Dentro e fuori gli istituti minorili, passando per le comunità di recupero, fino ai cancelli di Poggioreale. «Da lì ho iniziato a vivere la mia libertà, dietro le sbarre, attraverso lo studio. Ho fatto 12 anni di carcere, mi sono diplomato. E una volta uscito, dall’alto osservavo i bambini e rivedevo il mio passato. Da lì è nata l’idea di fondare l’associazione, per dare loro quell’infanzia che io e tanti altri ragazzi non siamo riusciti a vivere». Per un semplice motivo, dice Bruno. «Perché senza istruzione non saremo mai liberi».