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Per l’infettivologo Massimo Galli, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano e professore all’Università statale, la regola d’ordine per uscire dall’emergenza consiste nel passare «dall’era pre analitica a quella analitica». Abbiamo bisogno, cioè, di allargare l'ambito delle analisi e rinforzare il sistema di tracciamento e diagnostica sul territorio. «Anche per non bloccare il Paese - spiega - e per lasciare libere le persone, senza constringerle in casa...»
Professore, nell’ultimo bollettino sull’andamento epidemiologico abbiamo superato quota cinquemila contagi. Dobbiamo allarmarci?
Gli ultimi dati rilevano un andamento tutto sommato annunciato e prevedibile. Nel senso che il fenomeno sta crescendo e sta crescendo in maniera significativa e pericolosa. Su questo non ci possono essere dubbi, e credo che nessuno possa averne. I segnali forti, che pure ci sono stati, cioè gli interventi importanti per limitare questo rischio e per ridurre l’espansione dell'infezione in giro per l'Italia sono assolutamente necessari. Nei prossimi giorni - escludendo il fine settimana in cui generalmente si fanno meno tamponi - possiamo prevedere che l’andamento continuerà a crescere. Da questo punto di vista, le cose sono già successe.
Si è detto che l'aumento dei casi ha superato le aspettative che avevamo rispetto a questa prima fase dell’autunno, riportandoci ai giorni drammatici della primavera.
Abbiamo una situazione che, messa in prospettiva, sta diventando rischiosa. Questo è un dato di fatto. Però attenzione, siamo ancora lontani da quello che abbiamo visto in marzo. E dobbiamo evitare che possa tornare qualcosa di anche vagamente comparabile alla primavera scorsa. Possiamo dire che ci sono le premesse di una situazione che potrebbe comportare una realtà alla francese, alla spagnola, o alla britannica. Cioè: chiusure. Se non si interviene bloccando questa tendenza possiamo aspettarci grosse rogne.
Ritiene che le misure di contenimento del contagio debbano essere rafforzate ulteriormente?
Mi pare che il segnale sia stato dato, ma dobbiamo cercare di evitare realtà che ci mettono in condizione di avere problemi di non poco conto: come ad esempio le “movide” serali.
Per quanto riguarda l’ospedalizzazione e i ricoveri in terapia intensiva, qual è la situazione?
Molti dei reparti di malattie infettive in giro per l'Italia si stanno di nuovo riempiendo di casi di Covid. Mettiamola così: dal momento che abbiamo migliaia di riscontri al giorno, di questi positivi una certa fetta finisce fatalmente in ospedale.
Lei ha precisato in più di un’occasione che non si può parlare di mutazione del virus, diversamente da quanti sostengono che sia diventato meno aggressivo.
La faccenda è legata alle capacità di risposta dell'ospite. Se prendiamo il caso di studio di Castiglione D’adda, dove abbiamo eseguito una rilevazione a tappeto di più di 4.125 aderenti su 4.500 abitanti, notiamo che anche nella fascia 80- 90 anni, un terzo di coloro che si sono infettati non hanno avvertito nessun sintomo. Quello che conta è veramente l’individuo. Il virus è lo stesso: nel signor Rossi può causare una banale infreddatura, nel signor Bianchi la morte per polmonite. Questo dipende dalle caratteristiche dell'ospite e solo il cinque per cento del totale delle persone risultate positive finisce in ospedale o chiede di andare in ospedale. Gli altri se la cavano con una malattia blanda, mentre il 30/ 40 per cento risulta addirittura completamente asintomatico.
Professore, passiamo al tema del tracciamento. In questi giorni abbiamo assistito a code lunghissime fuori dagli ospedali e nei drive- in delle principali città.
Non c'è sistema sanitario in Europa, e probabilmente nel mondo, che superati i 5mila casi da trattare, riesca a farlo in souplesse. Siamo in difficoltà, qualsiasi sistema lo sarebbe, figuriamoci il nostro che è a pezzi: era tutto un buco già da tempo. Dobbiamo rifletterci su molto bene. Dobbiamo tentare di rendere il sistema molto più agile, con l'utilizzo di tamponi rapidi e con la moltiplicazione in tempi brevi dei centri dove possano essere eseguiti. Altrimenti la gente impazzisce e giustamente perde la calma. Finisce anche per perdere la fiducia e credere che quel che si fa per contenere la malattia non sia significativo.
Quindi sì ai test anche dai medici di famiglia?
Dal mio punto di vista assolutamente sì. I medici di base possono fare tamponi rapidi ed eventualmente decidere di rivalutare i casi sospetti con un secondo test. Lo stesso valga per i test salivari, se li avremo in breve tempo.
E per quanto riguarda il dibattito sulla duranta della quarantena?
Bisogna distinguere innanzitutto i positivi dagli altri. La quarantena dei sicuri infetti dipende da quanto restano infetti. Il dibattito sul secondo tampone è un ancora aperto, così come resta aperta la questione relativa alla capacità di contagiare di una persona con tampone ancora positivo dopo quaranta giorni, e però clinicamente silente. È una questione che dobbiamo risolvere cercando di trasformare il test che attualmente misura i cicli di replicazione virale in qualcosa che può diventare un test di sanità pubblica, perché per il momento non riusciamo a dare questo tipo di risposta per tutti. Ma in maniera ancora più urgente, dobbiamo lavorare per poter liberare le persone dalle quarantena dopo il contatto con un positivo. In questo caso bisogna poter avere la possibilità di sottoporsi al tampone, e di uscire dall’isolamento se il risultato è negativo. Attualmente, anche chi non è mai risultato positivo, deve confinarsi comunque 14 giorni in casa: in questo modo si blocca il Paese. E il problema si riflette sulla scuola. Bisogna trovare il modo di liberare le persone, senza costringerle in casa.