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Se qualcuno inventasse il premio per l’ipocrisia, sarebbe francamente difficile non assegnarlo, almeno a partire dal 2018, allo storytelling sul reddito di cittadinanza e alla frase di Luigi Di Maio: «Abbiamo sconfitto la povertà». Del resto, la misura simbolo del Movimento Cinque Stelle, condivisa dai suoi alleati dopo che avevano trascorso un anno intero a criticarla, non è affatto quello che vorrebbe lasciare intendere il suo nome, né corrisponde certo allo strumento applicato in altri Paesi. Non è, cioè, un assegno minimo riconosciuto a ciascun cittadino privo di lavoro ed erogato mentre viene accompagnato verso l’inserimento occupazionale, ma soltanto un sussidio, peraltro di carattere temporaneo, perché finanziato dal governo ancora per un solo anno.
Insomma - e questa è davvero la cosa più grave - il reddito di cittadinanza non è stato affatto immaginato, a dispetto di quanto si è detto e si continua a dire, come uno strumento per trovare nuovi posti di lavoro e dare una occupazione a chi oggi non la trova ( o non la cerca). Lo confermano, purtroppo, gli ultimi dati diffusi dall’Istat. Lo studio restituisce un quadro in bianco e nero, con qualche piccolo dato positivo, come l’aumento dei contratti a tempo indeterminato ( tra luglio 2018 e ottobre 2019 sono 56mila in più), ma ancora troppi lati bui, a partire dalla drammatica sofferenza dei lavoratori della fascia di età compresa tra i 35 e i 49 anni. Sono loro forse a rappresentare la generazione più sfortunata degli ultimi decenni, vittime di crisi industriali continue, penalizzati da un repentino cambio di organizzazione e degli strumenti di lavoro, colpiti ancora quest’anno da un calo dell’occupazione di 5mila unità sul mese e dunque di ben 128mila sull’anno.
Ma veniamo ai numeri del reddito di cittadinanza. A partire dallo scorso mese di aprile, la misura è stata riconosciuta a più di 2,3 milioni di persone fisiche: uomini, donne, giovani o anziani ( qui stendiamo un velo pietoso sulla valanga di truffatori che ne hanno usufruito grazie ai bizantinismi voluti dalla burocrazia). Di questi percettori, l’Inps, che gestisce l’erogazione dell’assegno, stima che siano 791.351 quelli “occupabili”, cioè i soggetti che hanno capacità e caratteristiche tali da poter svolgere un lavoro. È per loro che lo Stato ha assunto - e questi sono gli unici contratti certi - i “navigator”, che avrebbero dovuto aiutarli ad incrociare la loro offerta di mano d’opera e capacità con la domanda delle imprese. Peccato che tutte le risorse disponibili siano state investite soltanto per questa misura, senza che si sia anche solo minimamente messo mano al sistema di incrocio domanda- offerta di lavoro ( formazione finalizzata all’assunzione, mappatura dei fabbisogni, strumenti di riqualificazione o inserimento professionale, ecc.). E questo per non parlare ancora dell’assordante silenzio del governo in materia di politiche industriali, che lascia da anni sole le nostre imprese, specie quelle più piccole.
Il risultato è che sui quasi 800mila “occupabili” che percepiscono l’assegno mensile, al 10 dicembre 2019 ( più di sei mesi dopo la sua entrata in vigore) hanno trovato una qualsiasi occupazione solo 28.763 persone, insomma solo un misero 3,6%. Pochissimo meglio, nonostante le dichiarazioni roboanti e i cospicui finanziamenti destinati alla causa, di quanto era accaduto l’anno precedente: nel 2018 Banca d’Italia calcola che abbia trovato un’occupazione, passando per i Centri per l’impiego, unicamente il 2,1% degli ex disoccupati. È vero che i “navigator” sono operativi nei centri per l’impiego solo da settembre- ottobre in buona parte d’Italia e da pochissime settimane nella Campania, tragico simbolo dell’inefficienza delle politiche del lavoro. Ed è altrettanto vero che solo da due mesi è disponibile il modello Inps per consentire ai datori di lavoro di accedere a un incentivo fiscale se assumono i beneficiari del reddito di cittadinanza, ma, con questo, si esauriscono tutte le scuse che possono accampare dalle parti di Palazzo Chigi.
Certo, si può pensare di aspettare che le risorse finiscano o sperare in un miracolo di crescita che rilanci il nostro mercato del lavoro, ma sarebbe più serio - e utile - cambiare in corsa il reddito di cittadinanza o trasformarlo man mano, prima che sia troppo tardi, in qualcosa che serva davvero ai lavoratori e che abbia possibilità di incidere sull’occupazione. Per farlo, però, è necessario che il governo cambi target, e che quelle ingenti risorse accantonate per il reddito di cittadinanza siano indirizzate anche verso chi crea lavoro e assume, a cominciare da un robusto taglio del costo del lavoro lordo italiano, che resta fra i più alti, a dispetto di salari netti che - ennesimo paradosso del nostro Paese - invece sono tra i più bassi.
* Presidente Associazione Nord Sud