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Il costituzionalista Giovanni Guzzetta
Caso Almasri, l’iscrizione di Giorgia Meloni e i suoi ministri dopo l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti era un atto dovuto o discrezionale? Ne parliamo con Giovanni Guzzetta, ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Roma Tor Vergata.
L’iscrizione nel registro degli indagati è stata presentata come un atto dovuto, ma secondo alcuni giuristi si tratta di un’attività valutativa e non meramente automatica. Alla luce della normativa e della riforma Cartabia, si può davvero dire che Lo Voi non potesse fare altrimenti?
Questa vicenda incrocia due questioni giuridicamente e costituzionalmente rilevanti. La prima si risolve in questa domanda: l’attività di iscrizione nel registro degli indagati è un’attività amministrativa fondata su un automatismo o implica una valutazione? La giurisprudenza risponde che questa attività ha carattere giurisdizionale ed è espressione di un’attività valutativa. Tant’è che esiste un registro in cui confluiscono denunce ritenute non meritevoli di essere iscritte ( il cosiddetto modulo 45). Ma l’ampiezza dei margini di questa valutazione è sfuggente. Tant’è vero che la riforma Cartabia è intervenuta su questa materia, prevedendo che, ai fini dell’iscrizione, la notizia di reato contenga la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, e sia riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice. Il problema è dunque verificare se, in concreto, rispetto alla notizia di reato le valutazioni compiute siano state corrette.
Quali margini di discrezionalità aveva il procuratore nel valutare l’esposto? Alla luce della normativa sui reati ministeriali e dell’esistenza del modello 45, avrebbe potuto scegliere di non iscrivere la notizia di reato?
Dipende dalla notizia e dalla sua accuratezza. Inoltre nel caso in cui gli “indagati” siano membri del governo, l’articolo 96 della Costituzione stabilisce una disciplina speciale e la legge costituzionale che le ha dato attuazione ( la n. 1 del 1989) prevede che le indagini in questo caso siano fatte da un organo ad hoc. Se all’esito delle indagini si ritiene di promuovere l’azione penale per un reato commesso nell’esercizio delle funzioni, sarà necessario chiedere un’autorizzazione a procedere al Parlamento. Il problema è che, rispetto a questo aspetto, la norma costituzionale tace sulla fase dell’iscrizione della notizia di reato. Da una parte, dunque, abbiamo una norma costituzionale fondata sulla scelta di fondo che per i cosiddetti reati ministeriali si debba procedere sulla base di una disciplina speciale. Dall’altra si omette di stabilire se la fase di avvio del procedimento, l’iscrizione nel registro degli indagati, sia da collocare in questa disciplina speciale. Un’attività che non è meramente automatica o burocratica. La riforma Cartabia accentua l’evidenza di questo bug nel sistema, perché mira ad accentuare la funzione valutativa del momento dell’iscrizione. La domanda di fondo è: rispetto alla ratio della disciplina dei reati ministeriali, questo momento valutativo merita o no di essere attratto nella disciplina speciale? La valutazione se ricorrano le condizioni per iscrivere qualcuno nel registro degli indagati rappresenta una forma di attività preclusa al pm e da assegnare all’organo speciale previsto per i reati ministeriali? Insomma, tra la lettera della normativa su questo tipo di reati e il suo spirito sembra esserci un disallineamento. Quello che ho chiamato un bug del sistema.
Alla luce del rischio di strumentalizzazione di vicende giudiziarie che coinvolgono il governo, pensa che la normativa sui reati ministeriali andrebbe riformata per ridurre le ambiguità e limitare il rischio di polemiche?
Su questo punto credo che una riflessione sia necessaria. Anche perché in questo tipo di vicende c’è un evidente elemento di inquinamento dovuto agli effetti mediatici delle iniziative della magistratura nei confronti della politica. La questione probabilmente sarebbe molto meno drammatica se questo inquinamento non ci fosse. L’esposizione mediatica così dirompente di queste vicende, invece, rende ancora più forte la polarizzazione tra le varie posizioni e la drammatizzazione dei conflitti. C’è un esempio evidente dell’effetto inquinatorio della mediatizzazione di questi casi. Se leggiamo l’informazione che comunica al presidente del Consiglio e ai ministri interessati, vediamo che in essa il destinatario viene informato di essere indagato “per i reati commessi” in una certa data e in un certo luogo. Ora, un avvocato, un magistrato, un tecnico sanno bene che questa espressione non significa che è stato accertato che i reati siano stati commessi effettivamente, ma che si sta utilizzando un linguaggio un po’ burocratico e, a mio parere, infelice, per indicare il contesto nel quale tali reati, in ipotesi, sarebbero stati commessi. Insomma, non si vuol dire che tali reati siano stati effettivamente commessi. Ma nell’informazione manca il condizionale.
Ripeto, per un tecnico l’espressione può apparire infelice, ma è chiara. Il problema è l’effetto che fa su chi tecnico non è. L’espressione infelice diventa benzina per il pubblico non addetto ai lavori. In questo contesto, se posso sommessamente permettermi, il problema non è tanto stabilire in punta di diritto chi abbia ragione o chi abbia torto nella conduzione della vicenda, quanto di prender atto che, tra ambiguità normative ed enfasi mediatica, l’escalation dei conflitti è dietro l’angolo. E in una situazione di incertezza normativa, vera o apparente, e nel contesto della drammatizzazione, nessuno più crede nell’onestà intellettuale dell’altro e, anzi, dell’altro si sospetta l’opportunismo e la strumentalizzazione dell’incertezza giuridica.
Rispetto a questa deriva, il diritto può fare poco, proprio perché anche il diritto è sospettabile di essere utilizzato per la convenienza dell’uno o dell’altro. prevista dalla legge, come quella di non dar corso a una richiesta di estradizione, non può certamente commettere un reato, mi sembra un principio elementare del diritto penale, senza nemmeno scomodare la scriminante dell’art. 51 c. p. Del resto, neppure il “compianto” abuso d’ufficio incriminava scelte discrezionali dei pubblici ufficiali. Se ciò è vero, e ne sono ragionevolmente convinto, il Procuratore di Roma avrebbe dovuto iscrivere la denuncia dell’avv. Li Gotti a modello 45, ossia fra gli atti non costituenti notizia di reato. Questo era l’atto dovuto da parte del Procuratore Lo Voi. Non regge la ricostruzione per cui di fronte a qualunque denuncia nominativa, il Procuratore della Repubblica sarebbe comunque tenuto all’iscrizione nel registro delle notizie di reato. A questa conclusione osta il tenore letterale dell’art. 335 c. p. p. per cui va iscritta ogni notizia rappresentante un fatto determinato, non inverosimile e, soprattutto, riconducibile a una fattispecie di reato. Come detto, un atto politico discrezionale, previsto dalla legge, non può nemmeno astrattamente essere riconducibile a una fattispecie di reato.
Non serve evocare la “circolare Pignatone” o il novellato comma 1- bis dell’art. 335 c. p. p., per cui il nome dell’indagato va iscritto quando sorgano indizi a suo carico. Qui il problema è a monte, si tratta della notizia di un fatto non costituente reato. Per inciso, non andava nemmeno iscritto il denunciante per calunnia, essendo esclusa dall’ordinamento penale la calunnia giuridica ossia quella fondata su un errore di diritto, ma riferibile a circostanze di fatto vere. Ai sensi dell’art. 6 comma 2 L. cost. n. 1/ 1989, il Procuratore, nello specifico quello di Roma, omessa ogni indagine, deve trasmettere al Tribunale dei Ministri ( di Roma) non solo gli atti, ma anche le sue richieste. Questo è un passaggio fondamentale sul quale in pochi si sono soffermati.
Pur non potendo indagare, il Procuratore di Roma è chiamato a formulare una richiesta riferita all’alternativa fra l’archiviazione e l’esercizio dell’azione penale, richiesta che presuppone un apprezzamento di merito sulla fondatezza della denuncia ricevuta, ponendosi così agli antipodi dell’atto dovuto.
Mi sembra evidente che la scelta del Procuratore di Roma di iscrivere una pseudo notizia di reato e di valutarla nel merito, esprimendo le sue richieste al riguardo ( purtroppo allo stato non note), sia un comportamento voluto, ben diverso dal cosiddetto atto dovuto, e che appare seriamente eccepibile dal punto di vista giuridico, secondo quanto detto in precedenza. Così ricostruita la vicenda nelle sue coordinate giuridiche, rimane il piano politico.
Una prima domanda sorge spontanea, per quale ragione l’analoga decisione del ministro Nordio di non dare corso alla richiesta di estradizione avanzata dagli Usa nei confronti dell’ingegnere iraniano arrestato in Italia non ha originato esposti e procedimenti? A ben vedere si tratta di un caso del tutto sovrapponibile: un trattato internazionale bilaterale imponeva la cooperazione, ma il ministro ha opposto un diniego politico nell’ambito dell’evidente scambio di prigionieri con l’Iran che ha consentito la liberazione di Cecilia Sala. Non si può, inoltre, non cogliere la coincidenza temporale fra l’apertura di un’indagine che, per la prima volta nella storia della Repubblica, coinvolge tutti i vertici del Governo, e l’approvazione in prima lettura della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere osteggiata dalla magistratura al punto da proclamare una giornata di sciopero.
Senza cadere nel vizio italico della dietrologia, vi sono troppe coincidenze sospette, ma soprattutto la vicenda Almasri non è diversa da tante altre in cui si è fatta prevalere la realpolitik senza l’intervenuto della magistratura. Un caso chiaramente e schiettamente politico trasformato in giudiziario con un atto voluto, più che dovuto. Non spetta alla magistratura chiedere conto al Governo della scelta di liberare un individuo accusato di crimini gravissimi, la responsabilità è tutta politica e le sedi naturali in cui rispondere non sono i Tribunali, ma il Parlamento e il dibattito pubblico.