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La tentazione di dare le pagelle per questa quirinaleide è forte – e chi sono io per sottrarmi. Nell’elenco dei peggiori, metto Salvini, un vero ganassa, un capitan sfracasso inconcludente che è riuscito a bruciare e rendere irricevibile quella obbiettiva possibilità per il centro-destra di fare un nome per il Quirinale e che con la stessa candidatura, mai formalizzata e poi ritirata, di Berlusconi era stata messa nel piatto, candidatura che lo stesso Salvini, per primo, aveva contribuito a infragilire; Salvini non è cambiato mai da quando era un “giovane leghista” che gridava “forza Etna”, sempre sopra le righe, passando per il Papeete, le sue tirate allarmistiche e feroci contro gli immigrati e i meridionali – questa non è la Lega che amministra sui suoi territori del nord, concreta e capace: prima o poi, anche se Salvini riesce ancora a raccogliere la melma del voto degli italiani, questa frattura si spezzerà. Non solo, ma senza questo riequilibrio della Lega, non ci sarà ricomposizione del centro-destra: io dico che il prossimo leader della Lega sarà Luca Zaia, non Giorgetti. Poi, tra i peggiori, c’è Grillo – con il suo infelice tweet su #signoraitalia, che spingeva la candidatura della Belloni, e quindi la costruzione di un asse Conte-Salvini, nel nome di una “candidata donna” e anche “né di destra né di sinistra”, una retorica vieta e banale che puntava alla prova di forza in nome dell’inamovibilità di Draghi dal suo posto che squassava però proprio il governo con la ricostituzione di una maggioranza forte (il vecchio asse giallo-verde) dentro una maggioranza più larga – un ragionamento insostenibile, cucinato già prima da Grillo con il suo ultimo video, in cui non si capiva una sega, tranne che lui mollava Draghi. Il terzo dei peggiori è Conte – un vanitoso avvocaticchio e professoricchio che porta bene la sua pochette, che vanta numerose fan di signore di mezza età (maschi e femmine) per il suo ciuffo sempre a posto, già capace di cambiare un alleato con un altro nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso nel volgere di una notte pur di restare in sella: uno scivoloso capitone. Davvero un personaggio inqualificabile, un malfidato che indebolisce ulteriormente un centro-sinistra già scombiccherato di suo, e che ha giocato una pessima partita per il Quirinale. Tra i migliori metterei Casini, un po’ per quel suo stare defilato anche se sapeva che il suo nome era in corsa, eccome, ma soprattutto quando ha fatto sapere urbi et orbi che pregava di cancellare ogni sua possibile candidatura mentre diventava credibile la riconferma di Mattarella, dando così un saggio di ciò che significa essere democristiani d’antan. Casini potrebbe essere uno dei “costruttori” di un nuovo centro largo. E tra i migliori c’è sicuramente Draghi, il migliore di tutti, anzi: la sua “geometria invariata” («non sono possibili maggioranze diverse nell’elezione del presidente e nel sostegno al governo») vince. Chi lo critica per avare avanzato una sua candidatura («il nonno a servizio delle istituzioni») continua a non capire una ceppa dell’uomo e a fare ricorso a epiteti e pregiudizi. Draghi non poteva mettersi apertamente e "privatamente" in corsa perché questo avrebbe significato uno sgarbo nei confronti di Mattarella, uno sgarbo e una incrinatura che si sarebbero riversati in quella possibile “riproposizione” della squadra vincente che non si cambia, che è poi accaduta davvero – d’altronde, lui è lì perché Mattarella l’ha chiamato. Poi, ci sono i pareggiatori, quelli che non perdono ma neppure vincono, ma vanno più verso la vittoria che verso la sconfitta: Letta, che ha giocato solo di interdizione, nella peggior riproposizione del catenaccio all’italiana, ma poi mette la palla in rete; Renzi, che si è tirato fuori, consapevole del suo “peso” di scarso rilievo, ma che alla fine si ritrova con i due nomi che lui ha voluto stessero proprio dove sono; Di Maio, che non poteva andare contro Draghi, visto che è ministro di questo governo e in un ruolo enorme – anche se non sempre onorato come si deve, ma il ragazzo si farà – e che comunque è un governista di natura ma si è ritrovato alle dipendenze di un segretario, Conte, che faceva e disfaceva per conto proprio, e ha saputo tenere botta, che poi è la cosa che gli riesce meglio, la facciaditolla: chissà che non possa anche lui far parte di un nuovo centro. E infine Meloni, che perde per un verso – una qualsiasi voce in capitolo nel centro-destra – ma che incassa per un altro – intestandosi l’opposizione dura e pura a Draghi – anche se questo non farà di lei una possibile leader del centro-destra come area governativa e anzi la fa scivolare verso un pericoloso estremismo o comunque verso un “fattore di esclusione”. Detto tutto questo – che è “colore” – io penso che l’elezione rinnovata di Mattarella sia davvero la conclamata fine della Prima Repubblica, che poi è anche la Seconda e la Terza: ovvero del ruolo che i partiti hanno sempre avuto nell’essere contemporaneamente “Stato”. Tra i partiti e lo Stato (le istituzioni) quella sovrapposizione che ha caratterizzato, e sostanzialmente anche “aiutato”, la costituzione materiale di questo straccio di democrazia che abbiamo avuto dal secondo dopoguerra, si è aperta una frattura insanabile. Le istituzioni – lo Stato – sono una cosa a sé: dal Presidente della Repubblica, passando per il presidente del Consiglio, e poggiando sui governatori delle Regioni e i sindaci (e aggiungerei la Consulta, fresca di nomina di Giuliano Amato), lo Stato si va riassettando e configurando come una cosa “diversa”, altra dai partiti, dalla politica. È un “progetto” forse coltivato con più consapevolezza dai dem, soprattutto per il loro ruolo in Europa, ma che certo non possono intestarsi, perché ne è contemporaneamente la loro “fine politica”, la loro “eutanasia politica”. Direi che in questa forma si può spiegare la “partita” di Letta e il modo con cui l’ha giocata. E forse anche la “mossa” di Grillo verso la Belloni. La fine della “occupazione” dello Stato da parte dei partiti è di quelle notizie che non è facile interpretare. Uno Stato “senza partiti”, ovvero senza politica, dove conta l’autorevolezza del ruolo (il consenso sociale di Draghi e Mattarella) legato a un “formalismo istituzionale” di garanzia che mette sotto il tappeto le contraddizioni della “rappresentanza”, quindi della società – può davvero lasciare il passo a una democrazia formale, svuotata cioè di quell’anima che solo la sostanzia, ovvero la differenza di interessi, ovvero il conflitto. Ma apre, nello stesso tempo, a una riflessione enorme – su cui bisognerà tornare – tra il centro e la periferia. Ovvero: tra nuova forma dello Stato e nuova politica.