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Per quanto meno gridato di altri fra tutti i giornali italiani, e non certo paragonabile a quello di Piero Sansonetti sul Riformista a esplicito favore di “Giorgia”, temo che sia stato il titolo di Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, a mettere maggiormente in imbarazzo il segretario del Pd Enrico Letta a proposito del discorso applauditissimo del presidente del Consiglio al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. Si sarò fatto, da buon fedele, il segno della croce.
Quel “Draghi: l’Italia ce la farà con qualsiasi governo” non era certo l’altra mattina il controcanto - né certamente e onestamente poteva esserlo - della campagna elettorale del segretario del Pd- ex Dc, e non solo ex Pci, basata per scelta dello stesso interessato sulla contrapposizione non solo e non tanto al centrodestra quanto proprio a Giorgia Meloni. Con la quale non a caso Enrico Letta ha tentato il confronto televisivo diretto più ambito a ridosso delle urne, dolendosi della “bizantina” bocciatura dell’autorità di controllo, sensibile alle proteste degli altri concorrenti.
Il giornale dei vescovi italiani che, pur non menzionandola, ripeto, estendeva di fatto anche alla Meloni la fiduciosa attesa del suo successore da parte del presidente del Consiglio ha contraddetto un Letta impegnato a fermare un’avversaria dalla quale teme scombussolamenti anche sul piano delicatissimo della politica estera per i suoi rapporti - per esempio - coll’ungherese Orban, che tanto piace o fa comodo a Putin.
La politica estera ha assunto nella campagna elettorale una centralità, un’importanza, chiamatela come volte, via via crescente, al di là o a dispetto dei tanti fuochi sui temi economici, sociali, climatici, dalle “pillole” quotidiane di Silvio Berlusconi alle sparate e ai numeri di Matteo Salvini, dalle bertinottate di Giuseppe Conte ai coriandoli di Luigi De Magistris e alle fatwa di un Carlo Calenda alleato davvero con Matteo Renzi.
I più giovani hanno la fortuna di non poterlo ricordare, ma a volte ai più anziani, ma proprio anziani, sembra rivivere o riascoltare parole e temi della campagna elettorale del 1948: quando qualcuno, nell’immaginazione della propaganda, poteva rischiare di essere visto nell’urna da Stalin come stavolta da Putin, anche lui alloggiato al Cremlino. Allora l’adolescente Silvio Berlusconi incollava sui muri di Milano i manifesti elettorali della Dc rischiando le botte degli attacchini comunisti, che devono essergli anche per questo rimasti sul gozzo, anche ora che non ci sono più, o non si chiamano più così.
È proprio basandosi sul lascito draghiano di politica estera, di cui il presidente uscente del Consiglio parla sempre con una forza pari alla sobrietà, con una nettezza che non si presta mai agli equivoci o alle doppie letture tanto frequenti nella politica italiana, che Dario Di Vico sul Corriere della Sera ha voluto in qualche modo dissipare i dubbi, le paure e quant’altro espresse il giorno prima, sullo stesso giornale, dall’ex direttore Paolo Mieli allarmato, in particolare, dal “clima” romano avvertito a Mosca con compiacimento da Dmitrij Suslov.
Stante la “legacy pesante” di Draghi e nella convinzione, sospetto - come preferite della vittoria elettorale della Meloni accreditata dai sondaggi, Di Vico si e ci ha chiesto: “È credibile che una maggioranza di centro- destra possa operare un’inversione a U e posizionare il nostro Paese, se non a fianco della Russia, quantomeno in una posizione di finta neutralità rompendo l’accordo tra i partner europei? E che la stessa maggioranza possa anche nel delicato campo della dipendenza energetica cancellare quanto deciso dal governo attuale in materia di diversificazione degli approvvigionamenti e di varo dei nuovi rigassificatori?”. Che pure sembrano non piacere anche ad alcuni fratelli d’Italia, e non solo ai grillini.
“La risposta è no”, ha scritto Di Vico. Che così, senza aspettare “gli scienziati della politica” invocati in apertura del suo intervento per spiegargli “l’ossimoro” di Rimini - dove i ciellini avevano applaudito tanto Mario Draghi quanto il giorno prima Giorgia Meloni, reduce da un’opposizione a tutti i governi succedutisi nella legislatura finalmente interrotta - si è risposto da solo anche su quel versante. Il pubblico di Rimini ha chiaramente avvertito la continuità d’azione fra Draghi e “chiunque”, anche a destra, gli dovesse succedere per via delle “scelte obbligate” di politica estera, adottate dallo stesso Di Vico come titolo al suo editoriale.
Enrico Letta, pur consolato poi dall’abbraccio con Prodi in una manifestazione elettorale a Bologna, si è forse davvero girato nel letto da un’altra parte, come lo ha impietosamente immaginato il vignettista Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX di ieri. Ma gli basterà per uscire dalle difficoltà in cui obiettivamente si trova? O si è messo, come qualcuno già borbotta nel suo partito dietro una unità, al solito, di facciata in campagna elettorale.