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All’onesto e autocritico racconto di Piero Sansonetti, ieri sul Dubbio, vorrei aggiungere una testimonianza sul ruolo a dir poco improprio svolto dai giornali negli anni ' terribili' delle indagini giudiziarie sul finanziamento troppo a lungo illegale della politica. Terribili, come li ha giustamente definiti in un libro di meritato successo Mattia Feltri, rimbrottato dal padre, Vittorio, che diede in quei tempi il suo contributo all’imbarbarimento dell’informazione, scambiando spesso lucciole per lanterne, comunque trasformandosi in un megafono delle Procure, a cominciare naturalmente da quella di Milano.
È proprio a Milano che scorre, nella primavera del 1992, quella giornata particolare, diciamo così, della mia esperienza più diretta di Mani pulite, che è rimasto il nome della vicenda giudiziaria costata la vita a un po’ di imputati, suicidi o no, e soprattutto alla cosiddetta prima Repubblica. Che pure non aveva certamente demeritato nella costruzione della democrazia in Italia dopo le tragedie del fascismo e della guerra. Quella giornata particolare del 1992 quando incontrai a Milano Tonino Di Pietro...
Le agenzie trasmettono dalla prima mattina indiscrezioni provenienti dalla Camera, dove la giunta delle autorizzazioni a procedere è alle prese con le carte giunte dalla Procura ambrosiana sugli ex sindaci socialisti di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, sospettati di ricettazione delle tangenti gestite dal collega di partito Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio in flagranza di reato con un’operazione diretta da Antonio Di Pietro.
Le indiscrezioni romane, in gran parte diffuse o attribuite poi, a torto o a ragione, al deputato ambientalista Mauro Paissan, ex direttore del Manifesto, considerano il leader del Psi Bettino Craxi, peraltro cognato di Pillitteri, già coinvolto nelle indagini. E quindi fortemente a rischio nella crisi che sta gestendo il nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne del 18 aprile. Si sa che esiste un accordo addirittura pre- elettorale fra democristiani e socialisti per un ritorno di Craxi a Palazzo Chigi, da dove egli era stato sfrattato in malo modo nel 1987, dopo quasi quattro anni di governo, dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, sostituito poi da Arnaldo Forlani, vice dello stesso Craxi in quell’esperienza di capo del governo.
Nel pomeriggio di quella giornata di primavera, tornando a piedi nella redazione del Giorno, che dirigo da tre anni, incontro per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro. Che allontana col cenno di una mano gli agenti della scorta per venirmi incontro e parlarmi. Ci conosciamo solo superficialmente, avendolo incontrato una sola volta a pranzo, all’inizio del mio incarico al Giorno, col comune amico Claudio Dini, presidente della Metropolitana Milanese. Debbo inoltre a Di Pietro una certa gratitudine professionale perché, pur conoscendo il modo non acritico in cui seguivo le sue inchieste, ha avuto l’onestà in una intervista di difendermi dalle accuse, provenienti anche dall’interno del mio giornale, di non divulgare col dovuto rilievo, diciamo così, le notizie della Procura.
D’altronde era stato proprio Il Giorno a destare l’anno prima la curiosità della Procura con servizi di cronaca su ciò che accadeva negli ospedali per la macabra corsa delle agenzie funebri all’accaparramento dei clienti. E all’arresto di Chiesa, presidente della cosiddetta Baggina, ospedale e insieme casa di riposo, Il Giorno era stato il solo a ' sparare' la notizia in prima pagina, per mia personale decisione: tanto che all’indomani, visti gli altri giornali, nella prima riunione redazionale chiesi, un po’ preoccupato, al responsabile della Cronaca se fosse sicuro della notizia nei termini da noi riferiti. Cosa, questa, che dopo qualche tempo - giusto per darvi l’idea del clima che stava montando - avrei trovato raccontato su un quotidiano come prova di un mio intervento censorio sulla redazione.
*** Ma torniamo all’incontro con Di Pietro in quel pomeriggio. Tonino, come lo chiamano gli amici, allarga le braccia e mi esprime tutto il suo stupore per le notizie, anzi per le indiscrezioni diffuse dalle agenzie sul coinvolgimento del ' presidente'. Ch’egli nomina così facendo cenno verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi di Craxi.
Di Pietro mi assicura che in nessuna delle ' carte' spedite dalla Procura alla Camera si può trovare uno spunto a carico dell’ex presidente del Consiglio. E mi anticipa che fra poco la stessa Procura ' emetterà una nota'.
In effetti dopo un paio d’ore viene diffusa una smentita dagli uffici giudiziari con la classica formula dell’estraneità di Craxi ' allo stato' delle indagini. Formula che poi sarà usata dal capo della Procura, Francesco Saverio Borrelli, nella inusuale partecipazione alle consultazioni riservate del presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo. Che si risolveranno col conferimento dell’incarico a Giuliano Amato, anziché a Craxi.
Nella riunione serale di redazione per la confezione della prima pagina decidiamo di titolare sul comunicato della Procura, destinando le indiscrezioni a carico del segretario socialista non ricordo più se al sommario o al catenaccio, come si chiama in gergo tecnico un rigo vistoso di sottotitolo: tutto a metà pagina, per dare più spazio agli arresti ormai di giornata.
A tarda sera, mentre sto per scendere in tipografia a ' chiudere' il giornale - altro gergo tecnico - mi chiama da Roma l’amico Ugo Intini, portavoce e consigliere di Craxi, per chiedermi la cortesia di dirgli come saremmo usciti. Alla lettura del titolo mi chiede un’altra cortesia: ' Posso farti chiamare da Roberto? '. Che è Villetti, direttore dello storico Avanti! , il quotidiano ufficiale del Psi.
*** Villetti mi chiama dopo un quarto d’ora e non mi lascia neppure il tempo di salutarlo perché mi assale, letteralmente, con questa domanda: ' Ma è vero che esci titolando sulla smentita della Procura? '. ' Certo. È l’unica notizia vera. Il resto è un assemblaggio di condizionali, di ' sembra che', di ' pare'. Vuoi che privilegi questa roba, utile solo a boicottare l’incarico di governo a Craxi? ', gli rispondo. Roberto si traveste da fratello, non bastandogli più l’amicizia, e mi dice, accorato: ' Francesco, ma che fai? Non essere più realista del re. Questo ti nuoce professionalmente'. Non reggo più a sentirlo. Lo saluto e fuggo via dal telefono. Sono sinceramente esterrefatto. Mi metto le mani fra i capelli pensando a qualche mese prima, a quella trattoria di Bari dove avevo trattenuto Bettino dall’intenzione che mi aveva espresso di cambiare il direttore dell’Avanti! '. Non avevo neppure fatto tanta fatica.
Mi era bastato chiedere a Craxi perché mai volesse fare di Roberto ' un martire'.
Il primo avviso di garanzia al leader socialista sarebbe arrivato verso la fine del 1992: il primo di una lunga serie. E dopo qualche settimana si sarebbe dimesso da segretario del partito scrivendomi, con quella sua grafia grande e frettolosa: ' Faccio come il generale Kutuzov. Indietreggio per poter poi attaccare'.
Povero Bettino. Si illudeva di poter ancora fronteggiare la belva scatenata da quella che dopo, molto dopo, il buon Luciano Violante avrebbe sarcasticamente chiamato la carriera unica di pubblici ministeri e giornalisti. E che Piero Sansonetti ha efficacemente descritto raccontando delle telefonate che scorrevano ogni sera fra le redazioni dei maggiori giornali, compreso il suo, l’Unità, per consultarsi e uscire poi il più omogeneamente possibile.
*** Fa bene Piero a dubitare della consapevolezza di Eugenio Scalfari in questa partita. Di lui ricordo nitidamente, senza bisogno di ricorrere all’archivio, l’editoriale sui decreti che, su iniziativa dell’allora guardasigilli Giovanni Conso, il primo governo di Giuliano Amato varò nel marzo del 2013 per la cosiddetta ' uscita politica' da Tangentopoli. Che non sarebbe forse servita a salvare lo stesso la prima Repubblica - quella vera, non la Repubblica di carta di Scalfari - ma avrebbe probabilmente ridotto le perdite.
Usciti peraltro da una lunghissima riunione del Consiglio dei ministri, sospesa una ventina di volte per consentire consultazioni telefoniche fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale, i decreti Conso furono giudicati positivamente da Scalfari. Che non aveva previsto le proteste della Procura di Milano, il cui capo lesse personalmente davanti alle telecamere una dichiarazione di forte dissenso, negando che quella roba lì rispondesse in qualche modo, come si era scritto da qualche parte, alle attese degli ormai stanchi inquirenti; spiegando che le nuove norme avrebbero invece danneggiato le indagini; minacciando infine ricorsi alla Corte Costituzionale.
Tanto bastò al capo dello Stato per scomodare di domenica i suoi uffici al Quirinale e fare annunciare un suo motivato rifiuto di firmare i decreti legge e renderli esecutivi. Giocò, in particolare, contro uno dei decreti il fatto che, riformando la legge sul finanziamento dei partiti avrebbe fatto saltare un imminente referendum abrogativo della stessa legge promosso dai radicali. Se il decreto non fosse stato approvato dalle Camere entro i 60 giorni prescritti dalla Costituzione, il danno apportato al referendum - osservò Scalfaro - sarebbe risultato irrimediabile. Comunque motivato, l’imprevisto rifiutò della firma di Scalfaro segnò, dopo la resa della libera informazione e quella della politica, la resa anche delle istituzioni. Per la Repubblica, senza discontinuità purtroppo fra la prima che moriva e la seconda che si affacciava in quei giorni alle finestre del referendum elettorale contro il sistema proporzionale, fu un’altra storia. Per uscire dalla quale, con un riequilibrio fra politica e giustizia, entrambe al minuscolo per favore, chissà quanto altro tempo dovrà ancora trascorrere.