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smart working
Google ha fatto sapere che ridurrà la retribuzione ai dipendenti che lavoreranno da remoto. A seconda della città in cui abitano. Anche Facebook, Twitter, Microsoft hanno detto altrettanto.
La scelta annunciata ha aperto anche qui da noi una discussione, nonostante le differenze nelle relazioni industriali e nel sistema di contrattazione. D’altra parte agganciare la retribuzione al costo della vita ha in Italia una storia e una definizione. Si chiamavano “gabbie salariali” e sono state definitivamente abrogate dopo lo sciopero generale del 1969.
Per la verità anche prima di Google la discussione sul rapporto tra salario e territorio è riemersa qui da noi in modo carsico. In relazione all’autonomia regionale o a categorie di lavoratori, i pubblici dipendenti del Nord e del Sud.
Ma nel caso Google c’è un elemento in più. La variabilità del salario riguarderebbe, almeno per Google, soltanto chi lavora da remoto. In primo luogo sfugge la logica delle gabbie salariali. Dal punto di vista della struttura retributiva non è mai stato chiarito quali sarebbero i parametri per valutare il costo della vita a cui riferire la variazione, in peius, della retribuzione: gli affitti, i servizi, la spesa alimentare? Perché magari in un territorio, mettiamo al Sud, gli affitti sono più bassi ma i servizi assenti e quindi la spesa per usufruirne maggiore.
La struttura delle relazioni industriali in Italia si basa su 2 livelli di contrattazione collettiva: un contratto nazionale per settori produttivi che definisce diritti, doveri, retribuzione, inquadramento professionale e la contrattazione aziendale, che definisce norme legate alla specificità e alla produttività aziendale. Il cambiamento del lavoro e dei processi produttivi legati alla rivoluzione digitale dovrà cambiarne i contenuti. Sicuramente il lavoro da remoto è il cambiamento più importante e soprattutto il meno transitorio.
In secondo luogo il lavoro agile dovrebbe diventare a regime, una articolazione produttiva svolta in autonomia dalle persone, con responsabilità e in libertà. Non necessariamente da casa. Richiede l’acquisizione di abilità e competenze. Presuppone il cambiamento innanzitutto della cultura d’impresa. Nel lavoro da remoto cambiano le coordinate del suo svolgimento. Cambiano i tempi, perché lo smart working, nella new- normal oltre il Covid, prevederebbe autonomia di realizzazione nel raggiungimento degli obiettivi convenuti. Ma cambia anche la necessità di un luogo fisico fisso dove svolgere il lavoro. Ed è questa flessibilità di luogo e tempi che impatta positivamente sia sull’inquinamento e sugli incidenti stradali - come dicono i dati dell’Osservatorio di Milano - che sulla stessa struttura urbana: da centri congestionati e periferie dormitori a città policentriche.
Ma se è così, qual è il senso della proposta di Google di retribuire diversamente le persone che lavorano da remoto visto che è l’assenza stessa del vincolo del luogo una delle precondizioni dello smart working? Appare più un disincentivo, forse pensando ad una maggiore produttività legata al senso di appartenenza aziendale, ma i dati, almeno in Italia, dicono il contrario. Senza dimenticare che il lavoro da remoto riduce i costi delle imprese che in relazione ad esso hanno dismesso immobili e spesso scaricato costi, dall’uso della rete, agli strumenti di lavoro. E anche da questo punto di vista è poco comprensibile la logica retributiva che ispira l’annuncio di Google.
Infine la contrattazione collettiva dovrà certamente definire norme specifiche per lo smart working. Ma partendo da una premessa: il lavoro svolto da remoto è lavoro. E non di rango minore. Da questa premessa dovrà partire il confronto tra le parti per regolarlo in modo appropriato. Non servirà una nuova legge. Basta la 81/ 2017 come legislazione di sostegno alla contrattazione collettiva. Con un occhio attento all’impatto positivo dello smart working sullo sviluppo urbano contemporaneo.