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Nella volenterosa ricerca della verità sulla testata omonima di Maurizio Belpietro temo che Carlo Cambi si sia fatto prendere la mano non so se più falla fantasia o dalla malizia vedendo un diabolico piano nella inusuale apertura di un presidente del Consiglio alla rielezione del presidente della Repubblica in carica. Ciò “se mai fosse disponibile”, ha detto Giuseppe Conte di Sergio Mattarella in una intervista di qualche giorno fa, elogiandone le doti di saggezza, di equilibrio e anche di semplicità, da lui sperimentata evidentemente in un anno e mezzo di assidua frequentazione.
Data la scadenza né imminente né vicina del mandato di Mattarella, al cui compimento mancano ancora due anni e mezzo, la rielezione auspicata da Conte è apparsa a Cambi una sostanziale conferma dell’ipotesi che il presidente della Repubblica possa dimettersi anzitempo di fronte a un brusco deterioramento della situazione politica, e ad una crisi che l’obbligherebbe questa volta a sciogliere le Camere.
Piuttosto che lasciare alle nuove assemblee parlamentari, ancora sospettabili di risultare a schiacciante maggioranza di centrodestra, il compito di eleggere il suo successore, Mattarella investirebbe del problema le Camere uscenti. Che potrebbero confermare lui, appunto, o mandare al Quirinale un’altra personalità di sinistra: per esempio Romano Prodi, guarda caso espostosi durante la crisi agostana di governo a perorare la causa della maggioranza giallorossa, di cui ha anche proposto il nome italianizzando con “Orsola” quello della tedesca Ursula von der Leyen, eletta dal Parlamento europeo alla presidenza della nuova Commissione di Bruxelles con una convergenza di voti dei popolari - compresi i forzisti di Silvio Berlusconi - rimasti però all’opposizione in Italia, della sinistra e dei grillini.
Va detto, per onestà di cronaca, anche se il ricercatore della Verità di Belpietro ha omesso di farlo, che Prodi già nel 2013, per quanto fermato la prima volta da cento e più “franchi tiratori” del Pd, avrebbe potuto andare al Quirinale con una convergenza di voti piddini e pentastellati se Beppe Grillo in persona fosse riuscito nel tentativo compiuto all’ultimo momento di far recedere Stefano Rodotà dalla candidatura frettolosamente proposta proprio dal MoVimento del comico genovese.
Poco importa se fatta per sé stesso, ai fini della conferma, o per altri, come Prodi e affini, l’operazione attribuita alle intenzioni di Mattarella di anticipare la scadenza istituzionale del 2022 per cautelare il Paese dal rischio di un presidente della Repubblica di centrodestra, da Silvio Berlusconi in su o in giù, o di lato, mi sembra francamente azzardata, a dir poco.
Essa presupporrebbe una concezione troppo ingiustamente luciferina e disinvolta del presidente in carica, di cui non si può distorcere sino a questo punto il silenzio di cortesia e prudenza opposto alla sortita inusuale - ripeto - del presidente del Consiglio in carica per una sua rielezione, ordinaria o anticipata che possa essere o rivelarsi.
Già a Mattarella, secondo me, è stato fatto il torto di attribuire durante la crisi agostana un specie di conflitto d’interessi quando si è detto e scritto che i sostenitori del cambio di maggioranza gli avrebbero adombrato la rielezione per ingraziarselo e scongiurare il rischio che egli cedesse alla richiesta leghista e del centro destra, ma inizialmente sostenuta anche dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, di sciogliere le Camere in anticipo e lasciare che la scadenza istituzionale del Quirinale avvenisse durante la nuova legislatura a prevedibile trazione salviniana.
Potrò sbagliare, ma penso che nessuno abbia osato prospettare la situazione in questi termini personali a Mattarella, neppure per allusioni, semplicemente per non sentirsi cacciare dal suo ufficio, o sbattere il telefono in faccia.
E’ tuttavia indubitabile che, a parte la stecca - secondo me - della lettura riservata da Cambi all’auspicio della rielezione di Mattarella espresso da Conte, sia passata sui giornali tra la sostanziale indifferenza questa sortita del presidente del Consiglio.
Durante la cosiddetta prima Repubblica, quando pure la lotta politica e, più in generale, il dibattito o confronto tra partiti, correnti, leader e leaderini era di una certa sobrietà rispetto ai tempi odierni, mancando peraltro quel micidiale propellente che è la comunicazione digitale, bastava che un segretario di partito o capo di governo si lasciasse scappare un sospiro, non di più, sulla scadenza istituzionale della Presidenza della Repubblica, vicina o lontana, perché scoppiassero incendi mediatici, se non politici. E si aprisse o si scatenasse, spesso più a torto che a ragione, con un anticipo comunque compromettente la corsa al Quirinale. Che aveva come regola la stessa del Conclave, per cui chi parte in testa, o entra da Papa, come si dice oltre Tevere, non ne esce eletto.
L’eccezione sarebbe forse avvenuta nel 1978 con Aldo Moro, ma la situazione era così anomala che finì tragicamente, col sequestro e l’assassinio del candidato sicuramente più autorevole e meglio piazzato alla successione al collega di partito Giovanni Leone.
Questa volta, con la stecca - ripeto - della Verità di Belpietro, dopo la sortita di Conte è filato tutto liscio. Ognuno è rimasto al suo posto, nonostante la facilità di accesso a quella fogna a cielo aperto che diventa spesso la navigazione in internet. Se si sia trattato solo di distrazione o, finalmente, di una svolta comunicativa, e di costume, è troppo presto per dirlo. «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo», scrisse Moro alla moglie Noretta nell’ultima drammatica e incompiuta lettera prima di essere ucciso parlando di quello che l’aspettava oltre la morte nei rapporti con i suoi cari. Sarebbe bellissima anche una comunicazione politica finalmente svelenita.