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In un clima politico, mediatico, e persino culturale arroventato si moltiplicano le difficoltà del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sollecitato da Nicola Zingaretti a farsi carico del problema della prescrizione mediando fra le parti della maggioranza, specie dopo che Matteo Renzi ha praticamente avvertito di essere pronto ad una crisi.
Ha giustamente colpito il disagio, direi anche fisico, in cui si è trovato il ministro della Giustizia Adolfo Bonafede nelle cerimonie d’inaugurazione dell’anno giudiziario cui ha assistito sentendo contestare dai procuratori generali la sua cosiddetta riforma della prescrizione in vigore dal 1° gennaio: cosiddetta, perché in realtà si tratta della sua soppressione all’arrivo della prima sentenza, dopo la quale il processo potrà continuare negli altri due gradi di giudizio all’infinito, diventando in qualche modo per l’imputato un surrogato dell’ergastolo.
Ad uno dei procuratori generali critici degli effetti di questa pseudo- riforma, in particolare a quello di Milano, Roberto Alfonso, il guardasigilli ha voluto pubblicamente reagire ribadendo la sua linea e cogliendo significativamente l’occasione per dolersi anche dell’” etichetta di manettaro” che gli viene sempre più di frequente affibbiata nelle polemiche. Probabilmente il ministro pensava anche a quegli avvocati che - non a Milano, in verità, dove si erano limitati a innalzare cartelli e ad allontanarsi quando aveva preso la parola Piercamillo Davigo in rappresentanza del Consiglio Superiore della Magistratura- ma in altre sedi avevano protestato contro la politica giudiziaria del governo giallorosso ammanettandosi, appunto, davanti a fotografi e telecamere.
Ma più ancora forse del ministro Bonafede, del suo movimento politico 5 Stelle che, per quanto lacerato per tantissime ragioni, lo sostiene fortemente in questa partita della prescrizione sventolandola come una bandiera: più ancora di Davigo, che nella “sua” Milano ha dovuto sorbirsi, diciamo così, una relazione del procuratore generale anche contro le sue convinzioni su questo tema, dalle inaugurazioni dell’anno giudiziario è uscita malconcia l’Associazione Nazionale dei Magistrati, con tutte le maiuscole, per carità, che le spettano. La sua rappresentatività, dopo il consenso dato alla cosiddetta o presunta riforma della prescrizione, è uscita maluccio dalle opinioni di segno opposto espresse dai procuratori generali.
Il più sensibile e toccato, diciamo così, da questo scenario è stato sul Fatto Quotidiano, schieratissimo per l’abolizione della prescrizione, l’infaticabile o incontenibile Marco Travaglio.
Che in un editoriale in cui ha storpiato già nel titolo, secondo le sue abitudini, il nome delle Camere penali in Camere penose, perché appunto contrarie alla norma che sopprime la prescrizione con l’esaurimento del primo dei tre gradi giudizio, ha voluto contestare al procuratore generale di Milano la dissonanza dal sindacato, o associazione, di cui fa parte.
Questa, in verità, non si era mai vista e sentita, ma c’è sempre una prima volta per le cose alle quali non si è abituati.
Non immaginavo che un procuratore generale di Corte d’Appello, la prima autorità, diciamo così, del distretto giudiziario in cui opera, avrebbe dovuto preoccuparsi in primo luogo, facendo il proprio lavoro, esprimendo le proprie valutazioni e avvertendo dei guasti in arrivo per il funzionamento della giustizia con certe norme decise “per sentito dire”, come ha osservato abrasivamente Luciano Violante in una intervista al Dubbio, dovesse farsi carico della posizione del sindacato o associazione di appartenenza.
In un clima politico, mediatico, e persino culturale, così arroventato si moltiplicano naturalmente le difficoltà del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, appena sollecitato dal segretario del Pd Nicola Zingaretti a farsi carico del problema della prescrizione mediando fra le parti della maggioranza, specie dopo che Matteo Renzi ha praticamente avvertito di essere pronto ad una crisi, se le cose non cambieranno.
Il capo del governo sa che sul tema della prescrizione, per quanto credito si sia guadagnato a Palazzo Chigi riuscendo a trasformare, almeno sino ad ora, in un successo anche la disinvoltura con la quale qualche mese fa ha cambiato alleati e maggioranza, la sua verifica, già mutuata dal poco popolare linguaggio della cosiddetta prima Repubblica, rischia di tradursi non in quella che lui stesso ha chiamato e chiama “agenda 2023”, con l’obiettivo di durare fino alla fine ordinaria della legislatura, ma in un’agendina di pochi mesi.