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Non c’è futuro se non si investe sulle bambine e sui bambini. Intorno ad alcuni argomenti, quando ne viene sottolineata l’importanza, si realizza una convergenza plebiscitaria. Succede sempre quando si parla delle culle sempre più vuote. Succede anche quando si parla del rapporto tra poverta’ educativa e futuro del Paese.
Capita però che non seguano ne’ comportamenti coerenti ne’ stanziamenti di risorse dedicate. Questi temi, fuori dalla retorica del politically correct, non hanno fin qui occupato stabilmente la scena della discussione pubblica. Non sono stati in cima ai pensieri della politica e dei partiti. Neppure oggi. Dopo il lockdown che ha rivelato anche ai più ostinati la necessità di cambiare il modello sociale ed economico per renderlo migliore, più sostenibile per le ambiente e le persone, meno diseguale, meno schiacciato sull’eterno presente. Di cui la pandemia peraltro ha dimostrato la grande vulnerabilità perché privo di radici solide. Non sappiamo ancora esattamente la dimensione del Recovery Fund a disposizione dell’Italia per finanziare le riforme che servono al cambiamento. Non tutto dipende da noi.
Spetta però alle nostre classi dirigenti affermare le ragioni della svolta, la direzione di marcia, le priorità.
In Italia ci sono 10 milioni di minori, 1 milione di loro non ha né un computer ne’ un tablet. Lo dice il recente report di Open Polis e dell’Impresa Sociale con i Bambini. Il rapporto sottolinea che per loro, dopo la chiusura nelle case del lockdown, senza cambiamenti continuerà la chiusura nella trappola della povertà educativa. Perché il divario digitale amplifica le diseguaglianze e la povertà cresce al diminuire dell’età. Sappiamo anche che per ridurre le diseguaglianze bisogna investire sull’educazione dei più piccoli, a partire dalle bambine e dai bambini in età 0- 2 anni. Ce lo dicono molte ricerche nazionali e internazionali e anche secondo l’ONU e’quello l’investimento più capace di prevenire le diseguaglianze nel corso della vita.
In Italia al contrario l’investimento educativo nella fascia di età da zero a sei anni è minimo, in alcune regioni del Sud quasi inesistente.
È provato il collegamento tra l’assenza e il costo dei servizi per la prima infanzia con le basse percentuali di occupazione femminile e di queste ultime con la rinuncia alla maternità. Non viceversa. Insieme alla mancata condivisone del lavoro di cura e agli stereotipi che influenzano i comportamenti delle imprese nelle assunzione di donne.
E oggi la prolungata chiusura delle attività dovuta alla pandemia mette a repentaglio la stessa tenuta della fragile rete dei servizi educativi esistenti.
Le leggi però ci sono. Ora bisogna che ci siano le priorità di investimento politico oltre che economico. E’ del 2017 infatti il decreto legislativo di attuazione della legge di riforma della scuola che ha introdotto il Sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita ai 6 anni. Con una nuova prospettiva che mette al centro i bambini come titolari di diritti e definisce il carattere educativo dei luoghi che li accolgono.
Per assicurare ad ogni bambina e bambino l’offerta educativa che accompagni la sua crescita sin dalla prima infanzia e per sostenere la genitorialità e le famiglie. Il traguardo quantitativo previsto e’ l’estensione dei servizi educativi nel 75 per cento dei comuni e la copertura del 33% della popolazione dei bambini da zero a tre anni. Oggi solo il 12,5 per cento dei bambini tra 0 / 2 anni ha accesso ad un asilo pubblico comunale, con importanti squilibri territoriali: dal 25 per cento dell’Emilia al 2,1 per cento della Calabria. E il 24,7 per cento dei bambini accede ad un servizio pubblico o privato.
Il decreto legislativo demandava alle Regioni l’ulteriore definizione degli standard strutturali, organizzativi e qualitativi dei diversi servizi educativi per l’infanzia. Un rinvio importante, perché gli standard costituiscono la base sulla quale i Comuni possono autorizzare il funzionamento e concedere l’accreditamento dei servizi.
Qualche giorno fa e dopo 40 anni dall’ultima legge regionale in materia, la regione Lazio è stata la prima ad attuarlo con la legge a prima firma di Eleonora Mattia, Presidente della IX commissione consiliare.
Una legge rigorosa, che da’ massima attenzione all’inclusione di tutti i bambini e al sostegno economico alle famiglie piu’ in difficoltà, alla qualità del servizio e degli educatori. Un esempio di buona politica al servizio del futuro.
Come sarebbe la destinazione di parte delle risorse del Recovery Fund alla scuola e all’educazione proposta dall’Alleanza per l’Infanzia. A proposito delle priorità che le classi dirigenti hanno la responsabilità di indicare.
* presidente di LED, Libertà e Diritti