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Il procedimento penale intentato dai sommi Sacerdoti e dai membri del Sinedrio a carico di Gesù non è soltanto un fatto storicamente significativo, ma rappresenta certamente il paradigma di ogni processo che, scavalcando in modo evidente le ragioni del diritto, voglia a tutti i costi giungere ad un fine prefissato: la condanna.
Gesù non doveva essere processato, ma condannato; e il processo si presentava come un fastidioso passaggio che sarebbe stato meglio evitare. Ma non si poteva giungere a tanto perché sarebbe stato osare troppo.
Questo processo è infatti soltanto la messa in opera di un meccanismo persecutorio, come è facile constatare a partire dal fatto che ancor prima che esso abbia inizio sappiamo tutto: che cioè Gesù è del tutto innocente – anzi, Egli è l’” innocente” per definizione; che i suoi accusatori non intendono giudicarlo, ma condannarlo; che la condanna è inevitabile.
Insomma, l’esatto contrario di ciò che deve registrarsi in un normale processo di diritto. Qui siamo sicuri che le forme della procedura serviranno soltanto ad ottenere une decisione ingiusta. Gesù va tolto di mezzo ad ogni costo, trattandosi di un personaggio molto scomodo, che le canta a tutti senza giri di parole e che ha il coraggio di dire addirittura la verità: farisei, sadducei, sacerdoti, scribi, tutti sono contro di Lui, di Lui che, come dicono le scritture, «ha fatto bene tutte le cose».
Che Gesù sia innocente ed esente da ogni colpa non solo lo sanno bene i suoi accusatori, ma anche i suoi giudici.
I suoi accusatori, infatti, nel corso del processo- farsa davanti al Sinedrio, cercano testimoni che parlino contro di Lui, che possano suffragare le accuse: invano. I testimoni, tutti e senza eccezioni, non hanno nulla da dire contro di lui e perciò sono inservibi- li.
Ecco allora l’astuzia degli accusatori, funzionale a superare il problema, altrimenti irresolubile, della mancanza di testimoni d’accusa. Gli si chiede se davvero Gesù sia il figlio di Dio e alla Sua risposta Caifa, stracciandosi le vesti, grida che non hanno più bisogno di testimoni, perché Egli ha bestemmiato alla presenza di tutti e tutti hanno udito. Gesù perciò commette quello che i Sacerdoti considerano un illecito – quale la bestemmia – soltanto dopo essere stato arrestato, in presenza di tutti, e non prima.
Gesù perciò merita la morte.
Ma non potendo i Sacerdoti irrogare tale pena, in quanto sottomessi alla dominazione romana, son costretti a rivolgersi a Pilato.
Pilato rappresenta, come è noto, il paradigma del giudice ingiusto. Perché? Innanzitutto, perché Pilato sa benissimo che Gesù innocente. Infatti, a più riprese tenta di sottrarlo al giudizio, tenta di salvarlo. Allo scopo di appagare, almeno in parte, la furia degli accusatori, e pur riconoscendone la completa innocenza, fa fustigare Gesù, che viene anche percosso, irriso, abbandonato da tutti. Proclama apertamente che non trova nessuna colpa in Lui, ma non basta: la folla ruggisce.
Allora, Pilato ha un colpo di genio: sicuro del fatto suo, chiede alla folla se preferisce sia liberato Gesù, di tutto innocente, o Barabba, di gravi delitti colpevole? E qui, Hans Kelsen, come è noto, ha ricamato il suo argomento contro la democrazia: una maggioranza schiacciante urla convinta che Pilato deve liberare Barabba e non Gesù.
Il vizio endemico o, se si vuole, il peccato originale del metodo democratico: quello di non poter ovviamente garantire che il 51% abbia davvero ragione e il 49% davvero torto. La maggioranza aritmetica non dà garanzie di potersi orientare alla verità a scapito della minoranza. Platone già lo osservava: non è detto che i più – solo per essere appunto i più – abbiano ragione.
Pilato non conosce ovviamente Kelsen e forse ha appena letto qualcosa di Platone, ma sa bene che le cose stanno proprio così e cioè che la liberazione di Barabba, invece di quella di Gesù, è una infamia.
Così Pilato annaspa, tentenna, forse pensa addirittura di mettersi contro il volere della folla. Ma poi interviene un sentimento nuovo a condizionarlo pesantemente: la paura.
Infatti, i notabili israeliti gli fanno notare che Gesù si è detto Re e che ciò è pericoloso per Roma e il suo impero. Chi si dice Re è contro Roma, per definizione. E Pilato lascerebbe che ciò accada impunemente? E non teme per sé? Per la sua carriera? Per la sua immagine pubblica?
Non avendo il necessario coraggio, Pilato cede, rinnegando se stesso e, lavandosene le mani, destina Gesù alla croce, alla morte di croce. Pilato insomma consuma una ingiustizia che egli sa esser tale, come mai dovrebbe fare un giudice.
Antepone la paura al coraggio della decisione secondo giustizia, come mai dovrebbe fare un giudice. Libera un assassino invece di un innocente, coma mai dovrebbe fare un giudice.
Condanna un innocente a morte, sapendolo innocente, come mai dovrebbe fare un giudice.
Insomma, si pone agli antipodi del vero giudice.
Ma la più grave colpa di Pilato, ingiusto giudice, consiste nell’aver chiesto a Gesù, «che cosa è la verità?», senza attendersi risposta. Forse perché la domanda era sbagliata. Pilato avrebbe dovuto chiedere non che cosa, ma «chi è la verità?». L’aveva davanti a sé. E non la vedeva.