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Angelo Piraino, segretario di Magistratura indipendente
«La separazione delle carriere? A quale scopo? Quello che serve di più è garantire che il grande potere del pm sia usato in maniera imparziale». A parlare è Angelo Piraino, segretario di Magistratura indipendente, secondo cui il male maggiore non è la “familiarità” tra giudici e pm, ma quella tra magistrati e stampa. E aggiunge: «Il diritto penale non è la soluzione a tutti i mali».
Segretario, anche lei è tra quelli che fanno riunioni al Csm col proprio gruppo per discutere delle pratiche?
È una cosa che non ho mai fatto da quando sono segretario. Anzi, una delle prime cose che ho chiarito con i consiglieri è la separazione tra attività associativa e attività istituzionale. Non ho mai nemmeno chiesto di essere informato su pratiche che riguardano singoli, ma solo su eventuali iniziative che riguardano pratiche di carattere generale, che possono avere un impatto sulle questioni di politica giudiziaria che riteniamo fondamentali. Ed io personalmente evito anche di entrare a Palazzo dei Marescialli, se non ci sono questioni istituzionali che lo richiedano.
Ma come giudica questa prassi?
Non è di per sé scandaloso che il segretario di un gruppo associativo incontri i consiglieri del proprio gruppo. Il problema, semmai, è di cosa discutono.
Il suo gruppo è considerato molto vicino al governo, anche per le molte poltrone occupate da toghe di Mi a via Arenula. Possiamo dare per scontato il vostro appoggio all’esecutivo?
Siamo una corrente che si può definire conservatrice, le assonanze con questo governo sono tutte qui. Però la linea di condotta che ci distingue, con governi di qualsiasi colore, è quella di leggere e valutare i provvedimenti normativi in modo oggettivo, tenendo sempre presente che la scelta dei fini di un intervento normativo compete al legislatore. La magistratura può e deve evidenziare le criticità tecniche, senza invadere il campo delle scelte dei valori, che non le compete.
Facciamo una prova: cosa ne pensa dell’ultimo decreto del governo sulle intercettazioni?
Il testo è stato appena varato e un mio commento, nel merito, rischia di essere affrettato. È una norma che interviene su una questione interpretativa aperta, sulla quale già nella giurisprudenza di Cassazione c’erano dei dubbi. Il governo ha scelto una linea che, tra l’altro, è proprio la stessa affermata in precedenza dalla Cassazione.
Ma l’intervento si basa su una sentenza che aveva un orientamento diverso e che aveva fatto preoccupare i suoi colleghi, che hanno chiesto e ottenuto dal governo una norma ad hoc. Non è il contrario di lasciare al governo la scelta degli obiettivi?
Il legislatore ascolta i tecnici e poi fa le sue scelte, ma il boccino resta nelle sue mani. Non è certamente la prima volta che accade: nel contenzioso bancario, i vari governi, negli ultimi 20 anni, sono intervenuti più volte con norme di interpretazione autentica, orientando il mercato, ma la cosa è rimasta confinata ai dibattiti tecnici. Capita spesso che il potere legislativo intervenga per vincolare l’interprete ad una certa lettura di una certa norma. Ovviamente bisogna capire se la linea scelta sia coerente con la Costituzione. Questa volta mi pare il margine ci fosse, perché le due letture si erano affermate nella stessa giurisprudenza.
E l’utilizzo del decreto? L’urgenza non c’era. Sembra sia un caso di ansia da prestazione del governo di fronte alle richieste della magistratura…
Anche questa è una scelta politica. Il ministro Nordio ha detto che le norme penali si fanno anche per mandare dei messaggi. E su questo faccio non uno, ma due passi indietro. A me interessano le ripercussioni sul sistema e questo intervento mette fine a un’incertezza interpretativa.
Ma usare la legge come un veicolo per messaggi politici non è sbagliato?
Credo che l’affermazione del ministro non vada letta in quel senso. Non si tratta di messaggi diretti a questa o a quella maggioranza, ma alla collettività. La norma è una tensione tra l’essere e il dover essere e con essa il legislatore indica qual è il disegno di società che ha in mente.
E questo messaggio si dà innalzando le pene?
Anche: se questo governo ritiene che ci siano dei beni che vanno tutelati maggiormente l’innalzamento della pena è funzionale a dimostrarlo. Questo è il cuore della politica.
Però dubito che gli scafisti, ad esempio, si facciano intimorire dal reato universale. Oltretutto i fatti dimostrano che gli sbarchi sono triplicati…
Lì entriamo nel problema dell’approccio panpenalistico, ovvero il diritto penale come panacea di tutti i mali. Spesso si pensa che la norma penale sia il rimedio più efficace, ma è invece l’estrema risorsa, da usare quando tutti gli altri strumenti non funzionano. Sicuramente è una leva che va utilizzata con grandissima prudenza.
Il governo dice di voler fare la separazione delle carriere, alcuni suoi colleghi sembrano anche essere d’accordo. Lei da che parte sta?
Il problema sono le garanzie di indipendenza. Perché di fatto con la legge Cartabia la separazione è già molto avanzata. Il punto è cosa si vuole e perché. Mettere una paratia concettuale tra giudice e pm? È impossibile, perché tutti e due sono servitori dello Stato, è una cosa ineliminabile.
E come si può realizzare la parità tra le parti?
La disparità è strutturale. Da una parte c’è lo Stato, con un pm che dispone della polizia giudiziaria, e dall’altra il privato cittadino. Il problema è semmai dare al privato cittadino gli strumenti per evitare che ci sia un abuso del maggiore potere che nei fatti ha la pubblica accusa. Una riforma del genere non può cambiare la mente del giudice.
Ma l’equidistanza come si può raggiungere? È prevista dalla Costituzione.
Mi si deve dimostrare, innanzitutto, che il problema esiste. Numeri alla mano non mi risulta che il giudice propenda di più per l’accusa: le assoluzioni sono elevate e talvolta le chiede lo stesso pm. Non abbiamo bisogno di un pm che ragioni come una parte, ma di un pm che ragioni come un giudice. Troverei molto più preoccupante se questo grande potere venisse esercitato da un soggetto che non è imparziale.
Come si può realizzare l’imparzialità? Il pm è decisamente più protagonista del giudice nell’arena pubblica.
Questo è il virus inoculato dalla separazione delle funzioni. Tempo fa c’era una norma che impediva di fare il pm senza prima svolgere per almeno tre anni le funzioni giudicanti. Proprio perché prima di indagare bisogna imparare a giudicare. Quello, secondo me, era un buon percorso, piantava un buon seme culturale. Un altro nodo è quello di interrompere il cordone ombelicale che a volte c’è tra stampa e pm. E da questo punto di vista l’aver accentrato la comunicazione sul procuratore capo e aver messo dei paletti su come comunicare l’attività giudiziaria alla stampa è un primo modo per affrontare il problema. Una cosa che mi dispiace moltissimo è che le indagini fanno notizia, le sentenze molto meno. Capisco che il sistema è lento, ma bisognerebbe parlare più dei processi e meno delle indagini.