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L'avvocato Pierfilippo Capello
Il Irecente patteggiamento tra il campione di tennis Jannik Sinner e la Wada (World anti doping agengy) sul “caso Clostebol” ha acceso i riflettori sull’attività di un organismo che si occupa di «sviluppare, armonizzare e coordinare le norme e le politiche antidoping in tutti gli sport e in tutti i Paesi».
L’agenzia con sede in Canada, a Montreal, e con uffici nel resto del mondo è impegnata a «garantire e monitorare l'efficace attuazione del Codice mondiale antidoping e dei relativi standard internazionali, nella ricerca scientifica e sociale». Può inoltre svolgere indagini e rafforzare le capacità antidoping presso le organizzazioni di tutto il mondo che sono impegnate nel contrasto all’uso di sostanze illecite nello sport.
Qualche settimana fa, Sinner si è accordato con la Wada per scontare un periodo di squalifica di tre mesi (fino al 4 maggio) per una violazione delle norme antidoping. Il numero uno del tennis è risultato positivo nel marzo 2024 al Clostebol, una sostanza proibita, ma non con il fine di ottenere un beneficio finalizzato a migliorare le prestazioni sportive. Miglioramento, tra l’altro, non verificatosi.
La positività è avvenuta a insaputa dell’atleta, «come risultato della negligenza dei membri del suo entourage». Da qui il patteggiamento con il definitivo ritiro da parte della Wada del ricorso al Tas (Tribunale arbitrale dello sport) di Losanna.
Qualcuno ha definito la Wada come “l’Onu dello sport”, quasi per rimarcare il fatto che questa autorità non brilla per puntualità ed efficienza negli interventi. Un giudizio frettoloso, dettato anche da pregiudizio e poca conoscenza di alcuni meccanismi che riguardano lo sport e l’organizzazione di migliaia di competizioni nel pianeta.
L’agenzia mondiale antidoping ha messo ordine a una materia prima regolamentata in modo disarticolato e senza coordinamento tra le federazioni sportive, come osserva l’avvocato Pierfilippo Capello, Head of sports di Deloitte legal Italy. «Partiamo da una premessa», dice al Dubbio l’avvocato Capello: «Chi, come me si occupa di doping dal secolo scorso, dalla fine degli anni Novanta, sa perfettamente che esiste un doping o un antidoping pre-Wada e post Wada. Infatti, prima che venisse istituita l’agenzia, come conseguenza della creazione del codice mondiale antidoping recepito dal Cio (Comitato olimpico internazionale, ndr) ci trovavamo in una vera e propria giungla in cui ogni entità sportiva, ogni federazione interna, nazionale o internazionale aveva il proprio regolamento antidoping con principi differenti, con l’indicazione di cosa fosse giusto, cosa fosse sbagliato, con elenchi di sostanze, metodologie vietate e sanzioni. La creazione della Wada, con l’applicazione del codice antidoping, ha rappresentato, dunque, una rivoluzione, dato che in tutto il mondo l’atleta che risulta positivo viene giudicato secondo gli stessi principi».
Quanto appena rilevato è utile per affrontare il tema della possibilità di migliorare alcune cose all’interno dell’agenzia. «Va detto pure – aggiunge Pierfilippo Capello - che la Wada non è una procura della Repubblica che intercetta, che entra in casa delle persone e fa le perquisizioni, che controlla la posta elettronica, che intercetta le telefonate. Il procedimento sportivo, non dimentichiamolo, si basa sostanzialmente sul risultato del controllo antidoping, cioè se l’atleta è risultato positivo o no. Per cui la normativa antidoping prevede espressamente l’obbligo di sanzione».
Gli strumenti di contrasto al doping aprono nuovi scenari per gli organismi che devono vigilare – e farsi trovare preparati -, affinché le competizioni non siano alterate da atleti poco onesti. «Il doping – spiega Capello - è cambiato in maniera radicale. Fino a una quindicina di anni fa, l’atleta disonesto prendeva la sostanza dopante con una metodologia precisa: prima o nel momento della competizione oppure a ridosso della stessa competizione. Il doping oggi si è spostato nella fase di preparazione sportiva. L’atleta o i suoi consulenti che vogliono imbrogliare sanno che le tracce del doping spariscono dal fisico 3-4 settimane prima dei controlli. E allora cosa fanno?
Smettono di partecipare nei 3-4 mesi precedenti la competizione importante, così da non rischiare di essere controllati. Fanno una preparazione usando sostanze e metodologie dopanti, smettono quando sanno che alcune settimane, da quando c’è stata la partecipazione all’evento sportivo, il corpo non avrà più le tracce delle sostanze vietate. Pensiamo agli sport di resistenza o di forza pura. Quattro mesi di preparazione con le sostanze vietate portano a un livello tale che anche se non fai niente per 3-4 settimane, arrivi alla gara molto più in forma, molto più forte rispetto a chi nei mesi precedenti si è allenato con fatica e senza imbrogliare. Per questo, in occasione dei Giochi Olimpici, i campioni biologici degli atleti, quando risultano non positivi non vengono distrutti. Vengono conservati, perché magari qualche tempo dopo, anche a distanza di due anni, si possono scoprire cose contrarie alla normativa antidoping». Il doping è ancora un problema serio, poiché è presente in modo «molto più scientifico».
«Non c’è più il ciclista degli anni ’90 – sottolinea l’avvocato Capello - che prima di una salita impegnativa, al Giro d’Italia o al Tour de France, assumeva la pasticca di anfetamina. La metodologia scientifica di assunzione del doping richiede anche un controllo mirato. Penso a quello out of competition. Esiste un sistema per cui l’atleta deve dire dove si trova per essere monitorato con precisione. Per le verifiche del caso, però, l’autorità che vigila sul contrasto al doping, deve inviare dei tecnici per andare a bussare alla porta dell’atleta e effettuare i controlli. A livello logistico, di costi, di personale, di organizzazione tutto è molto più complicato rispetto ai prelievi post-gara. Il doping c'è e il contrasto alle sostanze dopanti è molto più complicato e costoso. Necessita pertanto di risorse adeguate».