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Bisogna chiamare le cose con il loro nome. In questo caso il nome è una parola di 13 lettere: antisemitismo.
L’antisemitismo è la forma più antica e resistente del razzismo. Si presenta nelle forme più “naturali” nella società moderna. E’ estesissimo. E può spingere un gruppetto di ragazzi nazisti a pensare che la morte di Anna Frank sia un gioco. L’antisemitismo nasce nel clima di odio, nel linguaggio dell’odio.
L’odio come segno di appartenenza, come diritto e gratificazione. E l’odio lo formano i giornali, l’intellighenzia, gli intellettuali, la Tv.
Che tra i tifosi di calcio - e non solo tra loro – si annidassero gruppetti di nazisti, si sapeva: non è una grande scoperta. A indignarci più di altre volte, evidentemente, è quel modo orripilante di manifestarsi, oltraggiando la memoria di una ragazzina di 15 anni - dolcissima e famosissima uccisa barbaramente nel lager di Bergen Belsen nel 1945. E autrice di un libro meraviglioso e fondamentale per la nostra cultura, e cioè il suo diario in clandestinità.
Oltraggiarla con il sorriso tra le labbra, come se si stesse canticchiando una canzonetta fatta solo per deridere un avversario. E’ questo che ci colpisce: questa semplicità, normalità, allegria di un pensiero orrido.
Questo pensiero orrido ha un nome, e il nome va pronunciato: antisemitismo. L’antisemitismo è l’origine e anche il cuore di tutti i razzismi. Ed è il cuore e l’origine dell’odio, l’odio come sentimento di massa e come modo per esprimere la propria identità e la propria forza. L’antisemitismo è molto più diffuso di come si vuol far credere, e ancora oggi, settant’anni dopo l’atrocità dell’olocausto, resiste, è vivo, condiziona settori molto ampi dell’opinione pubblica.
La gravità di quel gesto imbecille, di raffigurare Anna con la maglietta di una squadra di calcio, per chiedere la morte e lo sterminio dei tifosi avversari, sta solo qui: nella normalità dell’antisemitismo e nel rifiuto di guardarlo in faccia.
Molte volte si sente dire: «Siete degli ipocriti, volete la burocrazia algida del politically correct, non vi piace la naturalezza e la genuinità del linguaggio colorito. Temete la realtà. Amate i luoghi comuni» . Ecco, è da qui che bisogna partire: dal rifiuto di una semplificazione del linguaggio e del suo significato che autorizza a considerare il disprezzo, l’odio, l’incitamento alla violenza e alla discriminazione, come delle virtù.
Il politically correct non è nato per la manie perbenista di qualche pezzo di vecchia borghesia ottocentesca. Tutt’altro. E’ nato come reazione, esattamente, al razzismo e all’odio. Quando i neri d’America ottennero che non si usasse più il termine nigger, per definirli, perché in quel termine c’era una carica fortissima di rancore e di spregio, non compivano una azione burocratica ma mettevano un mattoncino alla costruzione di un’America moder- na, non più schiavista, non più razzista, non più ingiusta e arrogante. Era una operazione del tutto contraria alla burocrazia. La burocrazia era la burocrazia di quelli che dicevano nigger e ritenevano di avere il diritto a dire nigger.
Il politically correct era la reazione liberale e moderna a un mondo incivile e antico. E la stessa cosa vale per la modifica del linguaggio nei confronti delle donne, dei deboli, dei disabili, degli appartenenti a minoranze etniche, e naturalmente degli ebrei. Non esiste nessuna possibilità di spingere l’opinione pubblica verso idee liberali e di solidarietà, se il linguaggio resta quello troglodita dei razzisti. Anche perché quel linguaggio, persino quando sfugge la parola, è il segno di un modo profondo di pensare. Contagioso: contagiosissimo. Se uno in Tv dice “mongoloide” ( è successo a un giornalista uso a fustigare i costumi) o se un altro dice “negretti” ( è successo a un politico uso anche lui ad ergersi a difesa degli oppressi) c’è qualcosa che non va. Non va nel loro pensiero, e questo pensiero fa breccia nell’opinione pubblica. Così come c’è qualcosa che non va nel linguaggio che ogni giorno riempie i giornali. Vi cito un paio di titoli di ieri, copiati dai più importanti quotidiani italiani. Ce n’è uno, per esempio, che definisce il Pd il partito dei dementi. Proprio così: sottile ironia, raffinata polemica? No, semplicemente linguaggio osceno. Un altro dice esattamente così: «Gli immigrati sono matti: lo dicono gli scienziati». Ti fanno cader le braccia.
Ecco, io dico solo questo: se i maggiori opinion leader italiani sono abituati a discutere in questo modo, e a considerare l’insulto, l’improperio, l’offesa come il loro normale metodo di espressione, e di autogratificazione, dobbiamo poi stupirci se l’antisemitismo, e tutti gli altri fenomeni di odio che l’accompagnano, cresce, e si sente legittimato, e considera persino spiritosi certi giochetti con la memoria di Hitler e di Mengele?