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Il direttore Sansonetti mi ha chiesto di intervenire nel dibattito aperto dalle riflessioni di Corrado Ocone e di Fausto Bertinotti pubblicati recentemente da Il Dubbio. I due articoli partono dal libro di Nicola Porro La disuguaglianza fa bene, manuale di sopravvivenza per un liberista, (La Nave di Teseo", pp. 317, euro 16,50). Premetto subito che io non sono competente in economia e dunque mi asterrò dal mettere bocca in questo settore, quando affrontato dai miei interlocutori. Ocone, per dire, squaderna una serie, non di dati ma di considerazioni di stampo economico dalle quali emerge - sul piano"empirico" e "fattuale", come precisa Ocone - che, se è vero che nei paesi occidentali «la forbice tra i ricchi - sempre di meno e sempre più ricchi - e tutti gli altri» è aumentata facendo scomparire o marginalizzando la «cosiddetta borghesia», la «classe media diffusa» che a lungo ha rappresentato il robusto «tessuto connettivo delle nostre società», in vaste aree del pianeta poco per volta una «classe media» si è invece formata e consolidata. Non solo: anche i «poveri di oggi» non possono essere paragonabili a quelli di ieri: oggi, «di povertà si soffre, ma si muore molto di meno». Nonostante l'aumento esponenziale della popolazione mondiale questi bei risultati sono stati conseguiti grazie «alle conquiste della scienza e della tecnica» nel contesto di una grandiosa «globalizzazione» (anche se per altri sarebbe meglio parlare di «liberismo selvaggio»). Insomma, per Ocone la «disuguaglianza fa bene». Le sue stime e valutazioni sono condivisibili, sia per quel che riguarda la crisi delle "classi medie" occidentali sia per quanto concerne la crescita, di quelle fino a ieri in condizioni di "sottosviluppo", di povertà quanto meno relativa. Purtroppo, in queste aree, lo sviluppo è avvenuto - e sta ancora avvenendo - in forme anche disordinate, non eque, spesso frustranti, ecc... Tutto vero, ma a mio avviso non c'è da stupirsene. Nell'Occidente stesso, lo sviluppo capitalistico/industriale del 700 e 800 diede luogo a fenomeni drammatici di disequilibri sociali, di pauperismo, di sfruttamento, di miseria di ritorno. Le città dell'ottocento industriale avevano al loro interno enormi sacche di povertà non solo relativa, ma anche assoluta. Quelle evidenti disuguaglianze, quell'antico pauperismo incontrarono l'opposizione di figure illuminate, di artisti e scrittori, di uomini politici, presto riunitisi, via via, in leghe di mutuo soccorso o sotto le bandiere socialiste, comuniste, cattoliche ecc.; e si venne formando una cultura ed un'etica che, evitando i rischi del "luddismo" catastrofista, hanno dato vita ad un grande moto di riforme tendenzialmente - bisogna riconoscerlo - egualitarie. Passando al piano "filosofico", Ocone ci avverte che «al contrario della libertà, l'eguaglianza non è un valore in sé». Si tratta infatti, avverte Ocone, di un «concetto empirico: si è uguali o diseguali sempre rispetto a qualcosa e agli altri». Per il filosofo, in definitiva, «l'unica eguaglianza possibile è quella nella libertà». «Ogni uomo è diverso dagli altri, da tutti i punti di vista ed anche da quello materiale... ». Ocone dissente anche dalla tesi, diffusa nella cultura liberale, della «uguaglianza dei punti di partenza» o «delle pari opportunità», che a suo giudizio sono «mere astrazioni». Però, poi, fa sua una tesi che non è molto lontana, e cioè che quel che è necessario e giusto, «soprattutto da un punto di vista liberale», è perseguire «una sempre maggiore mobilità in seno alle nostre società», per ottenere la «scomparsa... dei corporativismi e delle ingessature, che possa permettere a chiunque di passare dalla diseguaglianza iniziale dei punti di partenza ad altre e diverse disuguaglianze di arrivo... ». La vita è «una gara truccata in partenza, ma generalmente, nelle società libere, ci sono vie di uscita per tutti», almeno per quanti vogliano "lottare" - darwinianamente? - magari arrangiando le situazioni «con buon senso e pragmatismo». A me pare che qui il ragionamento di Ocone presenti alcune dissonanze interne. Io non trovo molta differenza tra la tesi che invoca la «uguaglianza dei punti di partenza» e quella che ritiene prioritario lottare contro «corporativismi e ingessature». L'una e l'altra chiedono appunto la rimozione di ogni barriera ed ostacolo che possa impedire la crescita sociale (e anche materiale) del singolo, dell'individuo. Si tratta delle due facce di una medaglia, siamo sempre nel solco del grande liberalismo storico, che trova una sua origine anche nella Rivoluzione francese, nata proprio per abolire i corporativismi tipici del medioevo (o di una sua grande parte). Poi, la storia ha preso corsi diversi, e ha visto anche tentativi forti - e temporaneamente riusciti - per rimettere in piedi corporativismi e privilegi socialmente imposti. Più o meno, come prima conclusione, direi però che Ocone si trova, con me, dalla stessa parte della barricata, che io porrei comodamente sotto l'ala di Benedetto Croce. Il filosofo napoletano, tuttavia, vivendo in un'epoca di ancora forti contrasti e lotte sociali, ritenne che il liberalismo potesse convivere con una certa dose di "dirigismo" di Stato: si era nel pieno di esperimenti come il New Deal roosveltiano e il Welfare di Lord Beveridge, Croce non poteva smentirli. In linea teorica, certamente, era Einaudi ad aver ragione, respingendo le tesi crociane e rifiutando che liberalismo potesse andare disgiunto dal liberismo economico. Ma forse nemmeno Einaudi ha mai avuto piena consapevolezza dell'essenza - tutta schumpeteriana se non darwiniana - del capitalismo (che non sfugge, abbiamo visto, a Ocone). Mi pare comunque indifendibile la tesi di Bertinotti, secondo il quale la globalizzazione, con le diseguaglianze che ha portato nel mondo, con il suo "pensiero unico" che ha travolto il pensiero, anzi la cultura dell'eguaglianza, sia da respingere: a suo avviso, è una vera fortuna che questo fenomeno così negativo sia già sul viale tramonto. Non è così (per fortuna). Sicuramente il mondo globalizzato attraversa un periodo di difficoltà, che potrebbero anche dimostrarsi epocali, dalle quali emergerà un mondo totalmente diverso da quello che è stato plasmato negli scorsi decenni anche grazie allo scontro culturale tra "egualitaristi" e "liberisti" non ostili per principio alle disuguaglianze sociali. Un autentico pensiero liberista/liberale non vede di malocchio la disuguaglianza sociale, ma quello stesso liberista, se anche sinceramente liberale, invocherà e cercherà di mettere in atto leggi e norme che garantiscano l'assoluta (o la massima concepibile nell'"hic et nunc") uguaglianza di diritti (formali?) che garantiscano a tutti l'uguaglianza, fino al possibile, dei punti di partenza. E fu il liberale/liberista inglese lord Beveridge a varare, nell'immediato dopoguerra, l'immenso progetto del "welfare", che veniva incontro ad esigenze squisitamente economiche - ma non solo - dei ceti e delle classi meno favorite, per eccitarne lo sviluppo e la crescita sociale, culturale, umana. E, non dimentichiamolo, su tutti gli scranni da cui si amministra la giustizia, c'è la scritta "la legge è uguale per tutti". Sappiamo bene che senza un buon avvocato è per lo meno difficile vincere certi processi, ma ancora una volta lo Stato viene incontro a chi non può, decretando la possibilità di essere assistiti da un avvocato d'ufficio, che è figura non formale, anche se spesso a tale viene ridotto. Il liberale dunque non condanna le disuguaglianze, ma cerca di ridurne l'impatto. E' di questi giorni - in regime, pare, di pensiero unico - che da ogni parte viene denunciata l'enorme disparità tra gli "have" e gli "have not". Il guaio è che non si riesce ad individuare quale possa essere il "soggetto politico" capace di dare una risposta attiva alla denuncia. Certo non potranno essere chiamate in causa le gigantesche istituzioni finanziarie che regolano i flussi del denaro, non certo a favore della gente. Purtroppo, però, è ugualmente impossibile, oltreché frustrante, pensare che possa assolvere ad una funzione - per necessità e definizione - globale uno qualsiasi degli "Stati" nazionali che oggi si agitano sulla scena del mondo per trovarvi una loro collocazione onorevole ma sempre egoistica se non egocentrica. Occorre oggi, per l'uomo 2.0, una qualche istituzione politica adeguata, per dimensioni e autorevolezza, a risolvere il problema, ed avvicinare gli "have" agli "have not", senza ledere nessuna libertà, e magari guadagnandone altre (i cosiddetti "diritti umani"). Io vorrei intanto suggerire che se la globalizzazione è un fatto positivo, è necessario che la libera circolazione mondiale di capitali e beni sia accompagnata dalla libera circolazione di idee, uomini e diritto. Il che, purtroppo, non avviene.