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Dio “fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” avverte Gesù nel discorso della Montagna, poco dopo aver elencato le beatitudini. Il Signore non manda agli uomini e alle donne guerre, carestie e pestilenze per punirli dei loro peccati. La meccanica del mondo e la giustizia divina non sono banali. Al contrario, sono intrise di mistero, come Giobbe riconosce anche nella sofferenza.
Questo non significa che le catastrofi, di qualsiasi genere, non provochino reazioni alle quali sarebbe ingeneroso applicare lo sbrigativo aggettivo di emotive. Tutti vediamo qualcosa di più profondo nel disagio di questi tempi: uno scavare, un interrogarsi. Persino un abbandono. I giorni che stiamo vivendo sono eccezionali sotto il profilo sanitario e particolari dal punto di vista liturgico. La Pasqua è la festa della Resurrezione di Gesù Cristo, di tre giorni successiva alla sua passione e morte in croce. Prima della festa viene quindi il cordoglio, la tristezza, la commozione. Un’atmosfera che nella tradizione di molte regioni dell’Europa cattolica è sottolineata da processioni penitenziali, quando si possono svolgere, e visitazioni delle chiese. Alla nascita della televisione, verso la metà del secolo scorso, la settimana santa, quella che precede la Pasqua, e in particolare il venerdì santo, giorno della morte di Cristo, erano segnati da una programmazione particolare, adeguata al momento liturgico, che si accompagnava alla chiusura delle sale cinematografiche e in molte case al digiuno.
La domenica della Pasqua e il lunedì di Pasquetta, con le scampagnate fuori porta, sono rimaste nella cultura condivisa del paese. Molto meno è avvenuto per la liturgia che precede la festa, che ha finito per divenire esperienza di una minoranza.
Quest’anno la tempistica dell’arrivo del covit- 19 e le pratiche imposte dalla profilassi contro la sua diffusione hanno ricreato un contesto di contrizione collettiva durante la quaresima che nei giorni precedenti alla settimana santa si è intensificato, mentre la data della Pasqua è arrivata ad assumere un significato che trascende lo spirituale per inserirsi nel campo della medicina e dell’economia. Il dopo Pasqua viene visto come il tempo della ripresa, se non del ritorno alla vita precedente almeno dell’entrata in una nuova fase, di crescita, dell’esistenza individuale e sociale. Si discute su come fare, sui modi e sui tempi, ma tutti aspettano con ansia la riapertura delle attività lavorative e l’occasione di qualche socialità, la riduzione delle code fuori dai supermercati, la riapertura di negozi che vendono generi non ritenuti di prima necessità e, in prospettiva, la scomparsa delle mascherine dal panorama urbano.
Il questo periodo, di timore e di speranza, il popolo di Dio, i cattolici in qualsiasi senso intesi, i battezzati distratti, i pigri nella devozione, hanno trovato conforto in una Chiesa, e soprattutto in un pontefice, che ha saputo farsi interprete della loro sensibilità. Dei loro dubbi prima che delle loro certezze.
Papa Francesco ha accettato il ruolo di guida di una spiritualità moderna, che non crede la malattia sia una punizione divina, che ha un senso confuso del peccato, ma che ancora si interroga, proprio come Giobbe, sulle ragioni del male. Sull’identità propria in riferimento a una presenza che non incombe senza per questo svanire. La cristianità di oggi riconosce come propria l’immagine di solitudine del papa in Piazza San Pietro per la benedizione del 27 marzo e qualche giorno dopo nella gigantesca cattedrale, quasi completamente vuota, per la messa della domenica delle Palme. Più di quanto non avvenisse per i momenti, pur luminosi, degli incontri con le grandi assemblee. Lo dimostrano i dati di ascolto televisivi di questi eventi e anche quelli, più contenuti ma solidi e quotidiani, della messa di Santa Marta, ogni mattina alle sette, trasmessa da Rai1 e da TV2000. La breve omelia quotidiana di papa Francesco è attesa con curiosità e devozione, verrebbe da scrivere amicizia.