Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, spiega che «per rendere obbligatoria la vaccinazione deve esserci un certo grado di ragionevolezza e di fronte a una pandemia con conseguenze così gravi come un numero così alto di morti la giustificazione è da ritenere esistente».
Presidente Mirabelli, cosa implica dal punto di vista giuridico l’ipotesi di rendere obbligatoria la vaccinazione contro il coronavirus?
La vaccinazione è un atto medico che possiamo considerare intrusivo rispetto alla persona e perciò la base normale di ogni atto medico è la volontarietà. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, dice la Costituzione, come principio. E però l’obbligo può esserci, secondo la stessa Costituzione, con una disposizione di legge. Occorre una garanzia della fonte, non può essere un atto del governo a imporlo. La legge lo può fare se risponde a determinati requisiti. Anche qui il principio costituzionale è che la salute è fondamentale diritto dell’individuo ma anche che deve essere tutelato interesse della collettività, cioè proteggere la salute di tutti e bloccare il diffondersi di malattie contagiose di questo tipo. L’obbligo di vaccinazione è previsto in altri casi e alcune malattie sono state debellate ricorrendo proprio alla vaccinazione. Ricordiamo gli effetti della poliomielite e i risultati raggiunti con i vaccini, almeno due, di grande rilievo scientifico, proteggendo i bambini da gravi informità e forti conseguenze.
Il viceministro Sileri ha parlato di obbligo nel caso in cui non si raggiunga l’obiettivo dell’80 per cento di popolazione vaccinata entro fine settembre. È plausibile?
Perché l’obbligo possa essere imposto deve essere ragionevole. L’obiettivo deve essere la tutela della salute, che deve richiedere uno strumento tale e penso che di fronte a una pandemia con conseguenze così gravi come un numero così alto di morti e nel caso in cui non si raggiunga un certo numero di vaccinati la giustificazione è da ritenere esistente. Ma attenzione: ogni vaccinazione ha un margine di rischio. L’obbligo non potrebbe essere imposto a chi per motivi sanitari si trovasse nella condizione di ricevere danno dalla vaccinazione. Nei casi marginali nei quali vi può essere un danno che consegue al vaccino e giacche il sacrificio della persona è nell’interesse generale, l’effetto negativo deve essere indennizzato.
I contrari all’obbligo, da Salvini a Meloni, spiegano che il green pass è già sufficiente, anche se prima erano contrari anche al green pass. Qual è la differenza?
Dobbiamo distinguere l’obbligo di vaccinazione generalizzato, che sarebbe possibile introdurre per legge, dalla vaccinazione come requisito e onere per svolgere determinate attività e per partecipare a eventi che determinano il rischio grave di diffusione della malattia. Anche in questo caso possono esserci limitazioni temporanee ma occorre che il requisito richiesto sia adeguato rispetto al fine. Alcuni esempi: per partecipare a eventi sportivi nei quali l’affollamento è vistoso e vi è un rischio alto di diffusione del contagio, il controllo verso chi è vaccinato o chi non è portatore della malattia (perché ha avuto un tampone nativo o è guarito) può essere richiesta, così come per i tradizionali concerti estivi. Così come per svolgere attività lavorative in pubblici esercizi o altri luoghi nei quali il rischio si può determinare. Una distinzione che segnalerei è che mentre la vaccinazione generalizzata ha come obiettivo l’immunizzazione della popolazione, l’onere come requisito è un elemento che può essere richiesto per lo svolgimento di singole attività.
Il Comitato nazionale per la bioetica ritiene opportuna la vaccinazione obbligatoria per chi lavora a contatto con il pubblico. È d’accordo?
Mi pare che la vaccinazione per chi lavora a contato con il pubblico rientra nella categoria dei requisiti relativi all’obbligo sia per non subire la malattia sia per non essere portatori nei confronti di terzi. Immaginiamo chi lavora in uno sportello bancario o postale. Per quanto riguarda la scuola è evidente che restare per diverse ore al giorno in un ambiente chiuso, per quanto areato, può aumentare il rischio di diffusione della malattia. D’altronde ci sono altre malattie contagiose, diverse dalla covid, che prevedono misure speciali a scuola per evitare la diffusione del contagio. La valutazione della rischiosità per classi d’età è una valutazione di tipo tecnico e sotto questo aspetto il diritto rimanda a valutazioni fatte in campo tecnico e sanitario.
C’è poi il tema dei vaccini obbligatori nelle aziende, con le discussioni tra sindacati rispetto a chi è favorevole o contrario. I protocolli adottati a inizio pandemia sono sufficienti a evitare la diffusione del contagio o serve un passo in più?
I protocolli sono stati degli strumenti convenzionali nei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, ma disciplinare la sicurezza nei luoghi di lavoro è compito del legislatore. In questo caso il riferimento va fatto rispetto alle condoni effettive nelle quali la prestazione di lavoro avviene. Un conto è una prestazione in assoluta sicurezza dove non c’è contatto diretto e continuo tra persone; un altro caso è il lavoro in fabbrica nella quale ci sono centinaia di contatti ogni giorno. In questi casi, se c’è un rischio di diffusione del contagio e dell’epidemia, direi che l’obbligo di vaccinazione può essere imposto.
Lo stesso discorso vale per le mense aziendali, ma qui il discorso è relativo alla richiesta di green pass, secondo alcuni sindacati inutile perché «la mensa aziendale non è un ristorante». Cosa ne pensa?
Nelle mense qualcuno ha ritenuto che richiedere il green pass (la cui denominazione peraltro confonde perché sembra quasi una restrizione di libertà) non fosse necessario ma visto che la mensa è un luogo che aumenta la diffusione della malattia, dal momento che per forza di cose si è senza mascherina, allora non c’è ragione per differenziare la mensa aziendale rispetto a un ristorante o una pizzeria.
In alcuni paesi, come in Francia, la terza dose di vaccino per anziani e fragili è già raccomandata. Pensa che si possa parlare di obbligatorietà per alcune categorie riguardo a un ulteriore dose di vaccino rispetto alle due previste?
In questo caso il presupposto è una valutazione di carattere tecnico, e cioè se l’immunizzazione e la possibilità di non diffondere l’epidemia sia un obiettivo raggiungibile con le due dosi o se sia opportuno rafforzare il processo con una terza dose. D’altronde, non sappiamo nemmeno quale sia ancora la durata dell’immunità data dal vaccino, se pochi mesi o di più. In altri casi dove la vaccinazione è volontaria, come quella anti influenzale, essa ha un’efficacia temporanea e infatti dev’essere ripetuta ogni anno. La ragionevolezza dell’imposizione o meno della terza dose dipende dalle verifiche che possono esser fatte in campo scientifico e anche in questo caso è opportuno che il diritto faccia un passo indietro.