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Piercamillo Davigo sostiene che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Se così fosse, quanti magistrati corrotti sono in giro e non ancora «scoperti» ? A parte il fatto che la parola «innocente» non appartiene al pensiero laico ma alla Santa Inquisizione — perché in punta di diritto si dovrebbe parlare di «non colpevole» — questa visione del mondo applicata all’amministrazione della giustizia rappresenta l’emblema del degrado in cui versa la civiltà giuridica italiana, ed è il manifesto di una devianza che rischia di intaccare le garanzie costituzionali.
Il tarlo che si annida in quella frase corrode il sistema a tal punto da spingere ad affermare che la soluzione del problema- giustizia non sarebbe la riforma del Csm, ma la riforma dei concorsi per entrare in magistratura. Perché se è vero che la società è corrotta, e se è vero che i magistrati non vengono da Marte, allora è nel reclutamento delle toghe che origina la mala- giustizia.
E quindi anche per i magistrati si dovrebbe mutuare quel che Gaetano Salvemini diceva della classe politica: «Per l’ 80% è lo specchio della società, per il 10% è migliore per l’altro 10% è peggiore».
Nonostante siano a rischio ( e non da oggi) alcuni dei principi basilari della democrazia, nessuno, per svariati motivi e interessi, ha mai voluto affrontare il tema.
Men che meno il famoso circuito politico- mediatico- giudiziario, che in Italia è come «L’isola dei famosi» : appena emergono vicende eclatanti si allestisce il set, si accendono i riflettori e i soliti attori recitano la solita parte, fino allo spegnimento delle luci. Va così ormai da trent’anni, ed è accaduto anche stavolta per l’inchiesta che ruota attorno all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, e per l’ennesima replica dell’eterno “caso Berlusconi”. Partiamo dal leader di Forza Italia. Il chiacchiericcio si è concentrato sul danno che l’ex presidente del Consiglio avrebbe subito da parte di un collegio della Cassazione.
Certamente la dichiarazione del giudice Amedeo Franco e la parallela sentenza del tribunale di Milano, favorevole a Berlusconi sul reato di frode fiscale, alimentano sospetti sull’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Il punto è che questo caso — deflagrato grazie alla notorietà dell’imputato — nasconde centinaia di altri casi che non vengono alla ribalta perché i protagonisti sono anonimi.
Ed è in nome degli «anonimi» che andrebbe istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’operato della magistratura. Così la proposta avrebbe valore politico e consenso bipartisan, perché nessun partito potrebbe rifiutarsi di aderire: la Commissione dovrebbe infatti verificare se il sistema giudiziario opera nel rispetto delle guarentigie, cioè della democrazia. Perché è evidente che il vulnus nell’esercizio delle regole danneggia chi non ha i mezzi finanziari e gli strumenti adeguati per potersi difendere.
Soffermarsi sul fatto che l’ex premier possa esser stato privato delle sue libertà, fa dimenticare che c’è un popolo di «anonimi» orfano da tempo dei suoi diritti in tema di giustizia. Che le toghe hanno travalicato il loro ruolo. E che una classe politica debole e spesso asservita non solo non si è mossa per impedirlo, ma in certi casi ha persino assecondato il loro disegno.
Francesco Cossiga ricordava sempre che la magistratura «è un ordine e non un potere». I poteri sono quello Legislativo e quello Esecutivo, i quali agiscono «per conto» del popolo italiano, mentre le toghe agiscono «in nome» del popolo italiano. Di quanta fatica deve armarsi un comune cittadino per continuare a credere nell’operato equo, integro e illuminato degli amministratori di giustizia?
È in questo contesto che va inserita l’inchiesta su Palamara. Anche qui, il chiacchiericcio del «circuito» si è concentrato sulle intercettazioni, dividendosi tra colpevolisti e innocentisti. In realtà la figura di Palamara è il segno tangibile della corrosione del sistema democratico. Alla sbarra è l’intero CSM e con esso l’intera categoria dei magistrati. All’Assemblea Costituente il repubblicano Gaetano Sardiello disse che «alla magistratura non vanno portate né rose né crisantemi». Siccome annunciano di voler riformare la giustizia, sarebbe bene che il governo e la sua maggioranza ne traessero insegnamento.