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“Ti faccio a pezzi” è espressione dura usata con violenza contro qualcuno. Tale modo di dire, sia nel suo significato letterale “fare a pezzi”, sia nel senso sopra descritto, ma non indirizzato ad una persona, può essere certamente riferito alla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario ed in particolare a quanto avvenuto durante e dopo il suo lungo travagliato percorso.Un percorso iniziato il 17 dicembre 2013, quando l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ricorrendo per la prima volta alla facoltà attribuitagli dal secondo comma dell’art. 87 della Costituzione, inviò un messaggio alle Camere su un tema “scottante, da affrontare in tempi stretti”, riferendosi alla “drammatica questione carceraria” e alla sentenza dell’8 gennaio 2013 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che aveva condannato l’ Italia e accertato il “malfunzionamento cronico del sistema penitenziario”. Il Presidente evidenziò, tra l’altro, la raccomandazione del Consiglio d’Europa, citata nella predetta sentenza, “a ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riordinare la politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione”. L’autorevole intervento non sortì un effetto immediato, ma nel disegno di legge per la riforma del processo penale venne inserita la delega al Governo per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando convocò addetti ai lavori ed esperti del settore, dando avvio, il 19 maggio 2015, agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Diciotto Tavoli di lavoro sui temi più importanti relativi alla detenzione. Circa duecento persone coinvolte, in un percorso che si concluse ufficialmente il 12 aprile 2016 e che avrebbe dovuto segnare l’inizio di un nuovo modo di “pensare al carcere”, anche da parte del potere esecutivo. Con l’entrata in vigore della Legge n. 203 del 23 giugno 2017, la delega diventò norma ed il Parlamento affidò al Governo la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, indicando i criteri da rispettare e gli istituti su cui intervenire. Intoccabile l’art. 41 bis dell’ Ordinamento Penitenziario e tutto ciò che riguardava i delitti di mafia e terrorismo, mentre si chiedeva di prevedere nuove norme per l’assistenza sanitaria, per la semplificazione dei procedimenti, per l’eliminazione di automatismi e preclusioni, per facilitare l’accesso alle misure alternative, per favorire il volontariato, per migliorare la vita penitenziaria con il diritto all’ affettività e al lavoro, per la libertà di culto, per la detenzione delle donne soprattutto se madri, per la tutela degli stranieri, per stabilire nuove regole per i minori e per il sistema delle pene accessorie.Il Ministro Orlando istituì tre Commissioni di Studio per l’elaborazione degli schemi del decreto legislativo. Circa cinquanta gli esperti coinvolti, molti dei quali avevano già partecipato agli Stati Generali. Fin qui, l’iter legislativo per giungere alla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, per quanto lento, poteva dirsi virtuoso. Per la prima volta dal 1975, si stava rivedendo il sistema complessivo dell’esecuzione penale.Ma il virus degli interessi politici, che sino a quel momento si era celato negli austeri ambienti del Ministero della Giustizia e tra le fila dell’opposizione, era in agguato pronto ad intervenire.L’occasione fu offerta dalla data fissata per le elezioni politiche, giunta quando il lavoro delle Commissioni era quasi terminato. Da quel momento le autorevoli fonti che avevano ispirato la Riforma furono dimenticate e iniziò la “gara” tra i partiti per la modifica degli schemi di decreto. La stessa maggioranza eliminò parti fondamentali del lavoro delle Commissioni ed infine il colpo di grazia fu inferto con il nuovo Governo, i cui componenti avevano definito la Riforma “criminale” e “salva-ladri” . Un’operazione chirurgica di gruppo che ridurrà a brandelli l’ipotizzata Riforma, che risulterà “fatta a pezzi” e ne uscirà con l’ “ossatura rotta”, tant’è che anche coloro che vi avevano lavorato stentano oggi a riconoscerla. Il Consiglio dei Ministri operò il primo “taglio”, sopprimendo la parte sull’affettività, che pur era stata tema specifico di un Tavolo degli Stati Generali. Un taglio doloroso per le aspettative dei detenuti, per chi aveva lavorato sull’argomento e per coloro che la ritengono un elemento fondamentale, ma che lasciò indifferente il Parlamento, che pur l’aveva inserito nella Legge Delega. Il lavoro delle Commissioni perse ulteriori “pezzi”, sempre per l’intervento del Governo dell’epoca. Tra i più rilevanti, a voler citare solo parte di quelli relativi alla vita penitenziaria: le condizioni detentive lesive dei diritti della persona non possono essere giustificate dalla mancanza di risorse; lo spazio individuale nelle camere di pernottamento a più posti deve essere garantito per almeno tre metri quadrati, al netto degli arredi, mobili e fissi, nonché dei servizi igienici; il trattamento penitenziario deve salvaguardare la salute e la dignità dei detenuti, nonché sviluppare il loro senso di responsabilità; l’accesso ai prodotti multimediali utili per l’istruzione e la formazione professionale a distanza, nel rispetto delle esigenze di sicurezza. Annullato anche il comma che consentiva ai Garanti delle persone detenute la facoltà di assistere alle riunioni del Consiglio di Disciplina e di accedere agli atti del procedimento disciplinare. Dopo le elezioni, il nuovo Consiglio dei Ministri ha operato ulteriori tagli, recidendo i “pezzi” più importanti senza i quali nulla sarà davvero realizzabile. Annullare un più facile accesso alle misure alternative lasciando automatismi e preclusioni, privando il Magistrato di Sorveglianza della decisione, non solo non rispetta la Delega Parlamentare ed è contrario alle indicazioni del Consiglio d’Europa, ma è anche una scelta politicamente scorretta, perché esclusivamente populista e priva di risultati, in quanto il maggiore ricorso alle misure (pene) alternative ovvero di comunità non solo riduce nella maggior parte dei casi la recidiva, ma è uno degli elementi che elimina il sovraffollamento.“Picconato” il rispetto delle regole penitenziarie del Consiglio d’Europa, con riferimento alla sorveglianza che deve avvenire consentendo ai detenuti di trascorrere la maggior parte della giornata fuori dalle aree destinate al pernottamento, al fine di favorire i rapporti interpersonali e l’osservazione del comportamento e della personalità. Gravissimo ed enorme passo indietro che annulla, di fatto, quanto già indicato nel 1975: le c.d. “celle” sono stanze esclusivamente adibite al pernottamento.Soppressa la possibilità per il medico di fotografare segni che facciano supporre che il detenuto possa aver subito violenze o maltrattamenti. Incomprensibile depennamento, in quanto si sarebbe cristallizzato un dato oggettivo che sarebbe poi stato valutato dagli organi competenti.Eliminata la segnalazione immediata, da parte del medico, in caso di malattie che richiedono particolari indagini e cure specialistiche. Ulteriore oscura rimozione. Cancellata la possibilità di avere colloqui con i familiari attraverso la rete internet, nonostante la previsione delle cautele del caso. Eppure tale opportunità avrebbe garantito maggiore sicurezza, fornendo la possibilità di un migliore controllo audio-visivo. La c.d. Riforma comparata con l’Ordinamento del 1975, appare addirittura peggiorativa rispetto a quanto previsto dalla Costituzione e dal Consiglio d’Europa, mentre i pochissimi aspetti positivi – come ad esempio il lavoro – troveranno difficilissima applicazione dinanzi ad un sovraffollamento incalzante che ha riportato il numero dei detenuti a sessantamila con tendenza costante all’aumento.Quando l’Europa, occupata oggi a censurare i provvedimenti economici del Governo, si accorgerà che le rassicurazioni date dopo la sentenza “pilota” del 2013, che consentirono l’archiviazione del “caso Italia”, sono state ingannevoli, saremo probabilmente ancora una volta condannati. Ma quanto tempo passerà? E cosa farà questo Governo o il prossimo, o l’altro ancora? Nulla ! Il carcere è “una carta sporca e la politica non se ne importa”.