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«Attenzione: non diamo per scontato che sia la singola donna a non sapersi riconoscere come vittima. Perché siamo di fronte a una società che non vuole riconoscere la violenza maschile sulle donne». Elena Biaggioni, penalista e vicepresidente dell’Associazione nazionale D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), parte da un equivoco ricorrente che si è applicato anche nel caso di Martina Scialdone, la giovane avvocata romana freddata con un colpo di pistola dal suo ex venerdì scorso. La sua morte ha colpito in maniera particolare l’opinione pubblica non soltanto per le modalità del delitto, ma proprio perché si presume che la vittima, legale esperta in diritto di famiglia, possedesse gli strumenti culturali necessari per potersi “difendere”. Ma è davvero così? «La violenza non dipende dalla capacità della donna di evitarla - sottolinea Biaggioni -, la violenza dipende da chi la agisce».
Avvocata, partiamo dal dato di cronaca: nel 2023 abbiamo già registrato tre femminicidi, due dei quali in sole 24 ore. Il dato del 2022 è di 124 vittime. Si tratta di un’emergenza?
Il momento di allarmarsi è sempre prima che avvengano i femminicidi. Ricordiamoci che è la conseguenza ultima di una situazione non di emergenza, ma del tutto endemica. Bisogna mettersi in allerta dai primi segnali, riconoscendo la gravità e la pericolosità di questi uomini violenti.
La presidente del Cnf Maria Masi, con riferimento alla violenza di genere, ha parlato di una vera e propria «guerra», nella quale le donne e chi tenta di aiutarle, possono sentirsi isolate. Abbiamo gli strumenti efficaci per contrastare questo fenomeno?
Il vero strumento è riconoscere il fenomeno in sé. Perché strumenti ce ne sono, ma è inutile averli a disposizione se poi non si utilizzano. O meglio: se non ci si rende conto quando è il momento di utilizzarli. Ciò che manca è la percezione sociale, e in primis dello Stato, della pericolosità. Continuo a pensare all’allarme relativo ai giovani ambientalisti che lanciano vernice in giro. Se ne parla, si parla di misure di prevenzione, di pericolosità. Ma se riteniamo quei ragazzi pericolosi per la collettività, allora cosa sono questi uomini che girano con una pistola in tasca e sparano a una donna fuori da un ristorante?
Come nel caso di Martina Scialdone.
Bisogna imparare a riconoscere gli uomini violenti e pericolosi. E smettere di dirsi che si tratta solo di un marito ferito, di un uomo che non accetta la fine di una relazione. Che è solo una situazione all’interno della famiglia, che si può ricomporre. La Cedu ha condannato quattro volte l’Italia nel 2022, dicendo ad esempio che la magistratura non ha fatto un’adeguata valutazione del rischio. Poi c’è la responsabilità della politica, il finanziamento dei centri antiviolenza. Bisogna considerare l’insieme. Ad esempio: perché la stampa non si interessa mai ai casi di maltrattamenti in famiglia? Quanti articoli ci sono sull’argomento?
Tornando al caso Scialdone, si è discusso su un aspetto in particolare: come è possibile che Martina, da avvocata, non abbia riconosciuto i segnali della violenza? Questa circostanza ha stupito anche lei?
Assolutamente no. Non banalizziamo. I centri antiviolenza sanno benissimo che l’unica differenza che ci può essere rispetto al ceto sociale delle donne che subiscono violenza sono i soldi, che rendono più facile la fuoriuscita. Lo diciamo sempre: la violenza è una delle poche cose democratiche e trasversali. C’è in tutti i tipi di professione, in tutte le categorie sociali. Il fatto che Martina si occupasse di diritto di famiglia cosa c’entra? Perché pensiamo che lei dovesse capire e attivarsi?
Perché alle donne è richiesto di “difendersi”?
Perché si sposta sempre l’attenzione su ciò che avrebbe dovuto farle lei, anziché sulla violenza di lui. Si pensa a come proteggere lei e non a come fermare lui. Vorrei che ci interrogassimo nello stesso modo su chi ha ucciso: in quale fase quest’uomo poteva essere fermato? Quanti segnali sono stati visti?
Un’amica della vittima di Roma, nella testimonianza raccolta nell’ordinanza del gip, ne ha raccontato lo stato d’animo: Martina le aveva confidato di sentirsi spaventata, dopo una lite in cui l’ex si era trasformato in un «cane rabbioso». Poi c’è stato “l’ultimo chiarimento”. Quanto è importante questo elemento?
Sicuramente i centri antiviolenza danno l’indicazione di non cedere all’ultimo appuntamento, che è un momento pericolosissimo. Mi piacerebbe in generale che un’amica che raccoglie una confidenza e percepisce il pericolo, consigliasse di parlare con un centro antiviolenza. O parlasse lei stessa con un centro per capire come aiutare. Perché in un centro antiviolenza si può fare una valutazione del rischio. Ed è importante anche saper parlare con una donna che si trova in questa situazione. Non mi piace parlare di “relazioni tossiche”: se c’è un uomo violento in una relazione, dobbiamo parlare di uomo violento. Anche se ogni situazione è diversa.
E forse quando vi si è immersi non si riconosce l’entità del pericolo?
È difficilissimo dall’interno fare un’autovalutazione del rischio, proprio perché si è coinvolti. È necessario uno sguardo esterno, obiettivo e specializzato. È difficile che un’avvocata abbia gli strumenti per una valutazione del genere, che è uno strumento potentissimo ma se usato bene e dalle persone giuste. Perché presuppone la capacità di vedere la situazione, di fare le domande giuste, e di considerare gli aspetti rilevanti. Come lo è possedere un’arma: ecco una considerazione da fare. Una delle indicazioni è di essere sempre accompagnate, di non essere sole, di preferire luoghi pubblici. Ma vale per tutti i casi? La risposta è no, ripeto: bisogna fare una valutazione caso per caso.
Ci sono campanelli d’allarme ai quali per sua esperienza bisogna prestare particolare attenzione?
Ascoltare la propria paura, per me è questo. E a quel punto bisogna subito attivarsi, rivolgersi a un centro antiviolenza, scavare e guardarsi bene intorno. Gli indicatori possono essere tanti, ma dipende dal tipo di violenza. Bisogna drizzare le orecchie.
Senso di colpa, fiducia nella propria capacità di gestire una situazione di violenza: cosa può frenare una donna ad agire?
È difficile riconoscersi in una situazione di violenza. Perché tutto intorno a noi ci spinge a non farlo. Prevale sempre la lettura del conflitto, la lettura della dimensione di coppia. È ancora il dato culturale di base. Quando una donna muore si è sicuri che c’è violenza, ma prima che muoia? Attenzione a dare per scontato che sia la singola a non riconoscersi come vittima. Perché siamo di fronte a una società che non vuole riconoscere la violenza maschile sulle donne.
Un’obiezione che si pone spesso in questi casi è la seguente: ma allora siamo tutte in pericolo? Non si può ragionare in termini di conciliazione?
Ecco. C’è una distinzione chiara tra violenza e conflitto. Laddove c’è violenza non può esserci conflitto, e la conciliazione non può esser altro che l’ennesima occasione in cui la donna manda giù un rospo. Non è il litigio. La sopraffazione è l’asimmetria di potere. Alcune donne vivono anni con il proprio aggressore, nell’illusione di contenerlo. Ma non riescono a farlo. Perché la violenza non dipende dalla capacità della donna di sottrarvisi, di evitarla. La violenza dipende da chi la agisce.