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Il processo e la condanna a carico di Filippo Turetta ha offerto l’occasione per tornare a riflettere sul processo penale nei casi di violenza di genere. Ne parliamo con la dottoressa Roberta D’Onofrio, gip presso il Tribunale di Campobasso.
Lei innanzitutto condivide quanto detto dall’avvocato Matteucci, in una intervista sul Dubbio, per cui non esistono gli indifendibili?
Condivido in pieno. Non esiste alcuna categoria di indagati-imputati insuscettibile di essere difesi o che non vadano difesi. Il diritto di difesa è sacro ed inviolabile, come da Costituzione in quanto garanzia ineludibile che va declinata per qualsiasi categoria (ove ne esistano) di indagati o imputati. Naturalmente, siffatti principi non possono non valere anche nell’ambito dei procedimenti per violenza di genere o domestica.
Spesso raccontiamo di avvocati presi di mira perché difendono i cosiddetti “mostri”: esercitare il diritto di difesa soprattutto nei casi di violenza contro le donne è diventato molto complesso. Lei da magistrato percepisce questo fenomeno?
Io sono contraria a qualsiasi forma di etichettatura per “categorie”. A mio parere non esistono “mostri” se non come semplificazioni giornalistiche che non aiutano a formare l’opinione pubblica e sono di ostacolo all’accertamento della verità dei fatti e della fondatezza delle accuse. Il che deve avvenire nel processo. Ciò non significa sottovalutare il primario interesse pubblico alla diffusione delle notizie. Va compiuto uno sforzo, sia all’interno del processo, fra tutte le parti coinvolte, sia all’esterno, nella comunicazione mediatica, nell’utilizzare un linguaggio che sia il più possibile rispettoso delle peculiarità dei valori coinvolti.
Il processo, al suo interno, dovrebbe declinarsi come una “civiltà di parole”, con grande impegno al rispetto dei diritti di ciascuno. In particolare, nei processi per violenza di genere, proprio per la vulnerabilità nella quale spesso versano le persone offese, va ricercato un linguaggio che rappresenti un punto di equilibrio fra la necessaria ed inviolabile difesa dell’imputato e la salvaguardia dei contrapposti diritti vulnerati. Si tratta di una sfida che, ritengo, la magistratura e l’avvocatura siano in grado di affrontare, soprattutto a mezzo di una adeguata formazione culturale.
Quanto è complesso, se lo è, per un giudice non farsi condizionare anche indirettamente in queste vicende dalla grancassa mediatica o social?
L’accertamento della verità va compiuta rigorosamente all’interno del processo ed il magistrato non si fa influenzare in alcun modo da notizie apprese altrove. Nei processi più delicati nei quali è prevista la partecipazione dei giudici popolari la prima indicazione loro fornita è proprio quella di non subire qualsivoglia interferenza esterna nel proprio convincimento, che va conformato esclusivamente a quanto recepito legittimamente in aula di udienza.
Dice Matteucci: “Oggi si assiste ad una proiezione vittimocentrica della giustizia penale per cui si costituiscono doppi, tripli, quadrupli binari in relazione alla tipologia di vittima che si intende tutelare”. Lei cosa ne pensa, in particolare, in tema di violenza di genere?
Dissento. Riconosco che le strategie di indagine siano diverse per tipologie di reati. I procedimenti a “vittima vulnerabile” presentano delle peculiarità tecniche, già, ad esempio, per le modalità con le quali vengono raccolte le prove o per la anticipazione del contraddittorio in fase di indagine. Il che è connaturale rispetto anche alla rievocazione di fatti (a volte dolorosi) ed a garantire l’intervento della difesa nella formazione della prova fin dalla fase delle indagini.
Si tratta, poi, di processi nei quali si gioca anche sulla velocità e sulla sfida di approntare risposte che siano adeguate alle istanze di tutela solo se fornite in tempi brevi. Ritengo, dunque, che le garanzie processuali e le norme acceleratorie siano strettamente funzionali al presidio di tutela che si vuole assicurare, purché superato il serio vaglio di attendibilità della denuncia.
Come raggiungere il massimo equilibrio fra diritto dell’imputato ed istanze della vittima?
Questa è la sfida di ogni processo. La si vince con il rigoroso rispetto delle regole processuali ma anche promuovendo una crescita culturale di tutti i soggetti istituzionali coinvolti: si deve assicurare il pieno diritto di difesa promuovendo un uso della “parola” nel processo che non sia traumatizzante per la vittima.
Al Senato è in discussione un ddl costituzionale per inserire la vittima in Costituzione. Qual è il suo parere in merito?
Vedo con favore che venga attribuita dignità costituzionale ai diritti ed alle facoltà delle vittime del reato, nei limiti in cui sono riconosciuti dalla legge. Si tratterebbe di un segnale teso ad accentuare come il processo giusto sia quello proiettato alla ricerca della verità nell’equilibrio fra contrapposti valori di pari dignità costituzionale.
Turetta è stato condannato all’ergastolo. Secondo lei, comminare questa pena può essere opportuno alla rieducazione e dare sollievo alle vittime?
L’obiettivo del processo è quello di ristabilire l’ordine dei valori violato nella realtà anche mediante la comminazione di una pena, quale è quella dell’ergastolo, compatibile con l’assetto costituzionale attuale. La società dovrebbe tuttavia promuovere una educazione ai rapporti fra i generi in termini di equilibrio fin dall’infanzia così che possa diventare sempre meno indispensabile comminarla.