Atti sui giornali, manine, talpe. La procura di Perugia è da anni al centro di un ciclone giudiziario. Un luogo da cui passano inchieste delicate, i cui atti, spesso, finiscono sui giornali. La maggior parte delle volte non è dato sapere come, ma i protagonisti della carta stampata sono sempre gli stessi. Altri, invece, il colpevole si trova in quattro e quattr’otto. Come nel caso di Raffaele Guadagno, ex cancelliere, che le cronache hanno ribattezzato in un batter d’occhio “la talpa di Perugia”.

A indagare, però, è sempre Perugia, tecnicamente parte offesa. Parte in causa, potenzialmente. Ma tant’è. E mentre a Firenze, a distanza di cinque anni, giace ancora un fascicolo sulla fuga di notizie per il caso Palamara, la vicenda della diffusione della richiesta di archiviazione dell’indagine sulla Loggia Ungheria è stata risolta immediatamente. Solo su un fronte, però: quello che riguarderebbe il Fatto Quotidiano. Perché nessuno, stando agli atti, ha mai chiesto ai giornalisti di Repubblica e Corriere chi abbia passato loro l’atto che parlava di Luca Palamara, sempre lui. E nessuno, alla fine, lo ha contestato a Guadagno, che ha patteggiato la pena per tutelare la sua salute, dopo due ictus che l’hanno messa fortemente in discussione. Ma in un periodo di presunti dossier e “verminai”, le vicende del passato tornano prepotentemente sulla scena. Ed è per questo che dopo un lungo silenzio Guadagno ha deciso di parlare, in esclusiva, col Dubbio.

Lei ha patteggiato una pena per accesso abusivo alla banca dati dei procedimenti penali e rivelazione di segreto d’ufficio, diffondendo, secondo la procura di Perugia, la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla Loggia Ungheria. Ma sono mai stati trovati dei riscontri sul suo cellulare?

Nessuno. Né nel mio cellulare né nella mia casella di posta elettronica. Non c’è un solo atto d’indagine che dimostri che io abbia inviato ai giornalisti la richiesta di archiviazione della Loggia Ungheria. Non ci sono tracce, nel mio cellulare o nelle mie mail, di invii di quel documento ai giornalisti di Fatto quotidiano, Repubblica o Corriere.

Lei, però, si è rivolto ad un tecnico informatico, chiedendogli di cancellare il contenuto del suo telefono. Perché lo ha fatto?

È vero, mi sono rivolto a lui. Lo conoscevo da tempo: era già stato consulente della procura e più volte ha collaborato con me. L’ho cercato non per via di questa indagine, ma per alcune chat molto private che non avevano nulla a che vedere con il caso in questione e che volevo tenere per me, immaginando che, visto il dispiego di forze investigative, prima o poi mi avrebbero chiesto di consegnare il mio cellulare. La verità, però, è che alla fine non è stato cancellato nulla. Dopo avergli portato il telefono, presi tempo. Ma subito dopo mi sentii male, finendo in ospedale. Non avendogli mai fornito il codice pin del telefono, il mio cellulare è rimasto intatto. Il giorno dopo, però, la notizia dell’indagine che mi riguardava era già su tutti i giornali.

Negli atti del mio procedimento, ho recuperato qualche tempo fa il verbale di sit sottoscritto da questa persona. Nel verbale si dà atto che il tecnico ha consegnato fisicamente il mio telefono, dichiarando di aver ricevuto – da me - la confessione di aver diffuso atti coperti da segreto investigativo ai giornalisti e, in particolare, di aver inviato a Antonio Massari del Fatto la richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria. Ma nel mio telefono, aperto e analizzato dagli inquirenti, non risulta nessuna trasmissione o diffusione della richiesta di archiviazione della Loggia Ungheria. A dirlo, e a fondare l’accusa di diffusione di notizie segrete a mio carico, è solo quel verbale di sit, redatto – senza neppure un refuso! – da colui che è stato trovato in possesso del telefono dell’indagato. In passato, mi è capitato di vedere che il testimone che si trova in possesso del telefono dell’assassino, del latitante, del capomafia, viene indagato per favoreggiamento e, se fa dichiarazioni, può farle solo con l’intervento del difensore. In questo caso, invece, il possessore del telefono dell’indagato, che stavano cercando ben tre pubblici ministeri, è rimasto una persona informata dei fatti! Un testimone non colpito da nessun indizio di reità a proprio carico e che ancora lavora come consulente della procura di Perugia.

E come se lo spiega?

Non me lo spiego. È così e basta.

Non è vero, dunque, che lei gli abbia chiesto di cancellare i suoi contatti con un giornalista?

Io non ho mai detto questo, tant’è che non ci sono riscontri in atti di questa circostanza. È la sua parola contro la mia e contro i dati risultanti dal mio telefono. E infatti non è stata trovata alcuna mail sul mio cellulare, nessun contatto con il Fatto, con Repubblica o con il Corriere che certifichi l’invio di quel file. Se i file e le trasmissioni non erano – come poi è stato verificato – nel mio telefono, perché avrei dovuto chiedere una cosa del genere? Io sapevo che non c’erano. Volevo solo eliminare informazioni di carattere privato. Nessuna prova quindi che io abbia mandato atti segreti a qualcuno. L’unica cosa che esiste è il documento scaricato sul mio computer. Cosa che avevo già detto ai pm al telefono. Perché prima di andare a casa mia a fare la perquisizione mi hanno chiamato e mi hanno detto il motivo per cui stavano facendo questa perquisizione. E io ho detto loro che avevo scaricato la richiesta sul mio computer dell’ufficio.

I giornalisti che hanno pubblicato gli articoli incriminati sono stati sentiti?

Che io sappia, solo Antonio Massari, giornalista del Fatto, è stato convocato dopo l’avvio delle indagini e si è avvalso del segreto. È stato poi iscritto sul registro degli indagati e quindi archiviato. Nessuno ha sentito gli altri giornalisti, mai, nonostante il primo capo di imputazione fatto sul decreto di perquisizione fosse la rivelazione della notizia sulla Loggia Ungheria a tutti e tre i giornali. Oltre all’accesso abusivo.

E come se lo spiega?

Anche in questo caso non me lo spiego. È così e basta.

Stando così le cose, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un’altra “manina”?

Qualcuno deve aver inviato quegli atti ed io non sono stato. Su quella vicenda, gli articoli incriminati sono diversi: quello del Fatto si concentrava su alcuni passaggi che riguardavano Luca Lotti, quelli di Corriere e Repubblica, invece, su Luca Palamara.

E qui torniamo al principio di tutto: la fuga di notizie sull’Hotel Champagne nel 2019, clamorosa, a indagini ancora in corso, di cui non sono mai stati individuati i responsabili. Qualcuno l’ha mai contestata a lei?

No, mai. Ma la fonte potrebbe essere la stessa, a questo punto, perché il soggetto interessato è sempre Palamara. Ma è solo una mia supposizione.

Ma com’è possibile che non sia mai stato scoperto? In questo caso indagava Firenze e la gip Sara Farini, sul punto, ha scritto che «non risultano compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all'esterno della procura della Repubblica di Perugia». Perché non ci sono stati atti d’indagine?

Non so spiegarmelo, in realtà. So che a me, mia moglie e mia figlia sono stati fatti anche accertamenti patrimoniali, per capire se in tutti questi anni avessimo ricevuto somme di denaro o regalie, legate magari alle notizie uscite dalla procura di Perugia. Ma ovviamente non hanno trovato altro che i nostri stipendi, frutto del nostro onesto lavoro, accreditati sui nostri conti correnti.

Lei, però, quella richiesta l’ha scaricata sul suo pc. Perché lo ha fatto? È stata una sua scelta o glielo ha chiesto qualcuno?

La pm Gemma Miliani, che era uno dei titolari di quel fascicolo, mi disse: quando tutto sarà finito dovrai scrivere un libro anche su questa storia. Voglio aggiungere una cosa: io, come tutti gli altri, avevo accesso non solo a quel sistema, ma anche al registro delle iscrizioni. Ero abilitato ad aprire tutto. Infatti solo dopo il mio caso è stata emanata una direttiva del procuratore che vale per tutti, pm, pg, personale giudiziario. Una “profilazione standard delle abilitazioni all’uso degli applicativi”, già oggetto di discussione da tanto tempo. E lo dico per un motivo: se un pm fa una determinata attività può “lucchettare” o “bloccare” quel procedimento, se è segreto. Questo blocco lo può eliminare manualmente il magistrato che lo ha lucchettato. Questo impedisce l’accesso. Ma se il lucchetto non c’è, allora vuol dire che quel procedimento è aperto.

Miliani è anche uno dei magistrati che ha anche indagato su di lei.

Fino a un certo punto. Il mio avvocato, Chiara Lazzari, disse a Cantone che c’erano dei rapporti tra me e i due pm che mi indagavano (l’altro era Mario Formisano, ndr), che c’erano delle chat tra noi e che i due pm avevano parlato con me dai loro cellulari durante la perquisizione domiciliare a casa mia, con chiamate sul mio telefonino poi sequestrato. Di questa circostanza, peraltro, come molti ricorderanno, se ne è occupato a lungo il quotidiano La Verità. Poi i pubblici ministeri assegnatari del mio fascicolo sono risultati, fino alla fine, il procuratore Cantone e il procuratore aggiunto Petrazzini. I due pm Miliani e Formisano hanno solo firmato i primi atti di sequestro e perquisizione e Formisano ha sentito a sit il tecnico informatico che ha consegnato il mio telefonino.

Però Miliani avrebbe potuto spiegare che l’aveva invitata a scrivere un libro…

Sì, avrebbe potuto dirlo. Non so se l’abbia fatto. È così e basta.

Questo avrebbe dato una spiegazione alternativa, pur rimanendo in piedi l’accusa di accesso abusivo: se non poteva farlo, qualunque fosse il fine, sempre abusivo era.

Anche per quello io alla fine ho patteggiato. L’ho fatto in primo luogo per via della mia malattia, che non mi avrebbe consentito di difendermi come avrei dovuto durante il processo. Avrei dovuto giustificare ogni accesso puntualmente, e in quel momento, invece, non ricordavo nulla, avevo solo un gran vuoto in testa. Per assurdo, - anche se i medici che mi hanno in cura mi hanno spiegato che accade proprio questo -, oggi che sono più sereno, molti particolari mi stanno riaffiorando alla mente e li sto appuntando tutti.

Perugia non è nuova alle fughe di notizie. Potenzialmente lei poteva essere la talpa anche in altri casi, come quello sull’esame del calciatore Suarez. C’è stata un’indagine per la consegna di quel video alla stampa?

Fu aperta un’inchiesta, ma che fine abbia fatto non lo so.

Ma com’è possibile che sia la stessa procura di Perugia a indagare sulle fughe di notizie che riguardano la procura di Perugia?

Anche a questa domanda non so rispondere. Il mio difensore, nel verbale di perquisizione, la sera in cui i tre pm si recarono a casa mia con le loro scorte e con gli ufficiali di polizia giudiziaria che redigevano il verbale (i vicini ricordano almeno 7/8 macchine con i lampeggianti accesi), ha subito rilevato a verbale l’incompetenza della procura di Perugia, ma nessuno se n’è curato né in sede di riesame, né dopo.

E come se lo spiega?

Di nuovo, non me lo spiego.

Sta lavorando su un nuovo progetto letterario, ci può anticipare qualcosa?

Sì effettivamente, parlerò e racconterò la mia verità. Di cose da dire ne ho tante, dalla fine del mio processo ho iniziato ad annotare molte circostante che stanno riemergendo nella mia memoria e che mi stanno aiutando a comprendere e ricostruire le persone, i colloqui, i messaggi ricevuti e le informazioni avute in quelle ore che hanno preceduto lo scarico sul mio computer dell’ufficio della richiesta di archiviazione della Loggia Ungheria. Poi ci sono i 30 anni di procura, di misteri passati per la procura di Perugia davanti ai miei occhi! Ora che sto meglio e che ho più tempo, ho recuperato la voglia di raccontare. E lo farò.