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Caro direttore, perché sì all’autorizzazione contro Matteo Salvini? Presto detto: dentro la Costituzione la ragione di Stato è addomesticata, non assoluta. Riepiloghiamo anzitutto brevissimamente i fatti. Il cuore della richiesta di autorizzazione a procedere del Tribunale dei Ministri è il seguente: “abusando dei poteri” da Ministro dell'Interno, Salvini avrebbe privato della libertà personale i centotrentuno migranti bloccati a bordo della nave Gregoretti della Guardia Costiera italiana dalle 00: 35 del 27 luglio 2019 fino al pomeriggio del 31 luglio successivo, quando giunse l'autorizzazione allo sbarco nel porto di Augusta, nel Siracusano. Ci sarebbero vari dettagli che si potrebbero precisare e che sono presenti nella richiesta: dal problema specifico dei minori e delle relative Convenzioni internazionali, al fatto che si trattasse di una nave militare, e così via. Ci si potrebbe anche interrogare sulla fondatezza della diversa posizione del M5S rispetto al precedente caso Diciotti: fino a che punto anche nel secondo caso si possa ravvisare una responsabilità collegiale del Governo, se ci fosse una discontinuità effettiva dovuta al sistema di ripartizione europeo vigente al momento della Gregoretti e assente in quello della Diciotti.
Tuttavia questi elementi appaiono obiettivamente privi di interesse ai fini della decisione da prendere in Senato perché la linea difensiva di Salvini, al di là del tentativo della chiamata di correo del resto del governo ( problema che può riguardare per il voto in Senato solo chi era allora in maggioranza con lui), è basata non sulla negazione dei reati contestati, che anzi Salvini conferma, ma sull’esistenza di una Ragion di Stato superiore che escluderebbe di ritenerli tali. Ragion di Stato che nella memoria è identificata come «interesse nazionale, ordine e sicurezza pubblica, sicurezza della Repubblica», fondandola in sostanza a partire dal programma di governo e dal consenso popolare in materia. È fondato usare la ragion di Stato per sostenere che dei comportamenti i quali, posti in essere da altri sarebbero reati, qui invece non lo sarebbero perché decisi da un Ministro dell’Interno in funzione? Questa è la domanda precisa, senza perdersi nei singoli dettagli, cui devono rispondere i senatori. Ai quali non spetta invece in alcun modo pronunciarsi sul merito delle singole accuse, compito eventuale successivo dei giudici, qualora l’autorizzazione sia concessa.
In astratto la nostra Costituzione, come tutte, riconosce l’esistenza della ragion di Stato, di una zona di sovrapposizione tra giustizia e politica e cerca di regolarla in modo da non sacrificare unilateralmente né l’una né l’altra. In origine, il meccanismo pensato per i reati ministeriali era simile a quello previsto per il Presidente della Repubblica: accusa affidata al Parlamento in seduta comune previo lavoro di una Commissione Inquirente; giudizio affidato alla Corte costituzionale, integrata da sedici giudici estratti a sorte da un elenco di quarantacinque votato dal Parlamento.
Questo meccanismo fu però criticato perché troppo protettivo e perché concedeva troppo alle ragioni della politica già nella cosiddetta Prima Repubblica e non nella Seconda o nella fase di transizione verso di essa ( come avvenuto con l’abolizione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari). Nel 1987 fummo infatti chiamati come elettori a votare per un referendum abrogativo relativo alla Commissione parlamentare Inquirente, uno dei pilastri di quel sistema, che passò a furor di popolo.
Non c’era nulla di giustizialista nel voler limitare maggiormente la ragion di Stato, come dimostrato dal fatto che i promotori ( radicali, socialisti, liberali) erano gli stessi che avevano promosso il contestuale referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Anche in seguito a quel referendum è intervenuta la revisione con la legge costituzionale 1/ 1989 che ha creato il Tribunale dei Ministri, consentendo quindi l’avvio della procedura ad un organo esterno alla politica parlamentare a differenza dell’Inquirente, e che ha posto l’autorizzazione della Camera di appartenenza a metà tra la richiesta del Tribunale e l’eventuale processo. Non solo, ma anche il quorum della maggioranza assoluta per negare l’autorizzazione e non per concederla è espressiva di questo intento limitativo: si ritiene normale che essa sia concessa e solo quel quorum esigente è in grado di capovolgere la logica pro processo.
La legge ha poi delimitato la ragion di Stato non solo con quelle accortezze procedurali, ma anche nel merito, precisando che l’autorizzazione possa essere negata solo «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo». In precedenza, infatti, bastava a qualificare la natura ministeriale del reato anche una sola coincidenza temporale del reato commesso con il ricoprire la carica di ministro. Con tali precisazioni invece, la mera occasionalità non è più sufficiente.
La ragion di Stato è stata quindi progressivamente per così dire addomesticata dall’evoluzione costituzionale. Come ha scritto la Corte costituzionale nella sentenza 81/ 2012, «gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. (…) Il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate».
Se quindi, alla fine, come prospetta la memoria di Salvini, si fa in sostanza coincidere la ragion di Stato col consenso popolare e quello interno al governo, anche ammesso che siano esistiti davvero entrambi, ci si muove del tutto al di fuori del quadro costituzionale. Con quell’argomento, come hanno già rilevato altri studiosi, si potrebbe legittimare di tutto, persino la soppressione fisica di persone. Non siamo quindi in questo caso su una linea di frattura tra giustizialisti e garantisti, ma tra chi sostiene o meno il primato della Costituzione. Tale primato comporta che la ragione di Stato sia addomesticata, non assoluta, Come invece pretende la difesa di Salvini.