PHOTO
Il suo libro si intitola «Il Cigno nero e il Cavaliere bianco» e contiene i pareri di tutti i grandi dell’economia globale, nel descrivere la grande crisi che si è abbattuta sull’Italia. Roberto Napoletano, ex direttore del Sole 24 Ore, analizza lo scenario politico dell’epoca, catalizzato sul “bunga bunga” berlusconiano, ma anche le dinamiche geopolitiche che hanno determinato il perdurare della crisi italiana.
Che cosa significano le due metafore del titolo?
Il cigno nero cita un libro di Nassim Nicholas Taleb ed è la tempesta perfetta, ovvero la catena di eventi inaspettati che determina la crisi sistemica della finanza globale e anche quella italiana. Nel 2011 titolai il Sole 24 Ore con «Fate presto», il giorno in cui lo spread arrivò a 575 e il libro comincia proprio così.
Il cavaliere bianco, invece, chi è?
E’ Mario Draghi, il presidente della Bce, che ha salvato l’euro cambiando la politica monetaria europea rispetto al suo predecessore, il francese Jean- Claude Trichet. Draghi ha scommesso sulla sua credibilità personale e ha pronunciato la famosa frase del «whatever it takes», ovvero «salveremo l’euro ad ogni costo e ciò che faremo sarà sufficiente». Sono bastate queste sue parole perchè la fiducia sulla sua persona venisse riconosciuta dai mercati. Così il non domabile è stato domato.
Da che cosa deriva la grande credibilità di Draghi?
Dal fatto che il suo agire è sempre guidato dall’interesse europeo e non da quello italiano e l’interesse europeo - che però contiene anche il nostro di nazione membro - è quello di combattere la deflazione e far ripartire l’economia.
Era davvero così tragica la situazione di allora, tanto da titolare il principale quotidiano economico del Paese con «Fate presto» ?
Allora l’emergenza dei mercati era assoluta e lo spread era saluto a livello insostenibile. Io ho parlato con le massime autorità monetarie e tutte mi hanno ripetuto una frase: «I titoli italiani scottano». Per capire, i titoli a 10 anni erano collocati oltre il 7%, un tasso altissimo che avrebbe permesso al Paese di tirare avanti ancora per tre mesi al massimo: questo avviene quando gli investitori hanno paura a tenere i titoli di un Paese, perchè potrebbe fallire da un momento all’altro. Quello che era successo in Argentina prima del default.
Sono tutte italiane le colpe della crisi del 2011?
Voglio essere chiaro: non c’è stato alcun complotto e le colpe italiane e del governo Berlusconi di allora sono altissime. Eppure, intorno si sono mossi altri elementi. Il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan ha dichiarato come Trichet nel 2011 non capì la portata della nuova crisi e anzi disse che si poteva risolvere in un breve termine. Di più, adottò la ricetta sbagliata, alzando i tassi e facendo la stretta fiscale. Questa analisi tecnicamente errata influenzò in modo errato la politica, soprattutto durante il G20 di Toronto. Padoan con me è stato chiaro: quell’errore di valutazione ha allungato la durata della seconda grande crisi in Italia, con un danno complessivo simile a quello di una Terza guerra mondiale persa.
Quali furono le colpe del governo Berlusconi?
Innanzitutto la sua debolezza intrinseca, determinata dallo scontro a tutto campo tra Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi. Incise poi anche il decoro delle istituzioni violato con lo scandalo “bunga bunga”. Tutto questo ci ha esposto all’attacco dei mercati. Per dirla con le parole di Romano Prodi, «i nostri cari alleati» ci hanno marciato e ne hanno approfittato, e un esempio è il tentativo di commissariamento nel 2011 a Cannes, un altro è la guerra in Libia.
Parliamo del tentativo di commissariamento. Chi furono gli artefici?
Vi furono due vertici riservati in cui si tentò di convincere Berlusconi. Il più attivo era il presidente francese Nicolas Sarkozy e dopo di lui Christine Lagarde del Fondo Monetario Internazionale, che mise sul piatto 40,50 e poi 100 miliardi di aiuti in cambio dell’arrivo della Troika. Bisogna dare atto a Berlusconi di aver resistito agli attacchi francesi, sostenendo che l’Italia non avesse bisogno di aiuti perchè, a fronte di un grande debito pubblico, aveva una forte ricchezza privata.
Lei ha citato Trichet, Sarkozy e Lagarde. La Francia ha un ruolo chiave nella crisi che ha colpito l’Italia?
Diciamo che ci sono stati alcuni comportamenti da parte di soggetti, tutti francesi, che ci hanno oggettivamente danneggiato.
Qualcuno dei suoi interlocutori per la stesura del libro le ha confermato questo teorema?
Quello che si è spinto più avanti è stato Antonio Tajani. Lui mi ha detto che le questioni erano due: o Trichet veramente non aveva capito la portata della crisi, oppure giocava un’altra partita. E’ chiaro che le situazioni vanno vissute momento per momento ma un insieme di errori ha determinato l’allungamento della crisi italiana. Se poi dietro si nascondesse la volontà di indebolire il sistema italiano per poter acquistare i suoi fiori all’occhiello, questo è un altro tema. Io mi limito a mettere in fila una serie di eventi.
Un altro terreno in cui Italia e Francia si sono scontrate è stata la guerra in Libia.
Sì, nel libro racconto che una trentina di capi di stato scrissero a Ban Ki- moon per dire che il mediatore giusto per la situazione libica era Romano Prodi. A opporsi fu Sarkozy, sostenendo che Prodi era un uomo stimato ma non poteva essere lui, perchè proveniva da uno stato coloniale in Libia. Si scoprirà poi che l’Onu nominò come mediatore un libanese cittadino francese, e tutto si può dire della Francia meno che sia estranea alla Libia e non sia uno stato coloniale in Africa.
Secondo le anticipazioni del suo libro, Prodi le ha detto che «i mercati vogliano far pagare a Berlusconi la posizione italiana» in Libia, Russia e Iran. Che cosa ha voluto dire?
Prodi e Berlusconi son due persone opposte dal punto di vista comportamentale, della gestione della cosa pubblica e della politica. Le loro scelte in politica estera, però, si avvicinano: entrambi, infatti, sanno che è interesse italiano avere un buon rapporto con la Libia, con Putin e stabilizzare l’Iran. Prodi mi ha detto di aver accolto con fastidio il saluto dell’ambasciatore dell’Arabia Saudita con la parola “bunga bunga”, ma anche lui condivideva l’esigenza di avere rapporti con questi soggetti e anche con Putin. Entrambi, infatti, sapevano che perdere i rapporti con la Russia significava regalarla all’Asia e mettere in pericolo interi settori industriali italiani, che dipendono dal mercato sovietico.
E in che modo questo ci è stato fatto pagare?
Le racconto un mio colloquio con Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni. Lui mi disse che gli accordi petroliferi non li fanno le società, ma le nazioni e mi raccontò di come Matteo Renzi si battè per ottenere la fine delle sanzioni contro la Russia, ma la posizione di Merkel e Sarkozy fu irremovibile. Parallelamente, però, la Germania costruì il gasdotto del nord con lo stesso Putin e nella società entrarono Francia, Germania e i paesi del Nord, ma nessuno chiamò Eni. Questo qualche dubbio lo fa sorgere.