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I 250 anni dalla nascita di Napoleone, 15 agosto 1769, sollecitano alcune riflessioni, in un'epoca di destra risorgente. Che l'imperatore dei Francesi vada collocato su di uno scranno piuttosto sulla destra in un'immaginaria aula che raccolga i protagonisti della storia ci sono infatti pochi dubbi. Certo fu un figlio della Rivoluzione, senza la quale avrebbe fatto una discreta carriera nell'esercito di Luigi XVI e poi di Luigi XVII, ma non molto di più.
A lui si devono realizzazioni come il Codice Napoleone che hanno spinto in avanti l'evoluzione del diritto europeo di parecchi decenni e le sue riforme scolastiche sono ancora alla base del sistema francese e non solo, il sistema stradale europeo deve molto alle sue decisioni e si potrebbe procedere parecchio a indicare i contributi da lui offerti sulla via della modernizzazione, meno su quelle della democrazia rappresentativa e della pace.
Non si scappa: Napoleone era un dittatore militare, che fondava il suo potere sul consenso dell'esercito e sulle vittorie in guerra. Esaurito questo carburante per l'accordo raggiunto tra i più reazionari monarchi del continente, il suo destino era segnato. La questione sta su come mai esista tutt'ora un mito napoleonico diffuso e accettato, a differenza di quanto è capitato ai dittatori del Novecento. Ne mancò chi scatenò contro di lui la “macchina del fango”, con un qualche successo iniziale.
Il sistema propagandistico inglese era efficiente e collaudato. Qualche secolo prima aveva stravinto il confronto con l'impero asburgico madrileno, fornendo un'immagine diffamatoria della sua politica e della corte che la elaborava.
Anche contro Napoleone gli inglesi si impegnarono nella denigrazione. Sul piano politico l'accusa era quella di essere il tiranno guerrafondaio, l'Orco che divorava i suoi sudditi mandandone a morire decine di migliaia ogni anno, e questo ci potrebbe stare, su quello personale si diceva di amori di ogni tipo, compreso quello consumato con la figliastra, Ortensia figlia di Giuseppina e regina d'Olanda, rapporto dal quale sarebbe nato Luigi Carlo, che l'imperatore aveva indicato come proprio erede al trono. Dopo Waterloo il governo inglese e quello monarchico francese fecero a gara a stampare pubblicazioni di ogni genere per presentare nel modo peggiore la figura a le imprese di Napoleone.
Nonostante questo impegno, del quale l'imperatore deposto era perfettamente a conoscenza a Sant'Elena, Napoleone non ebbe mai dubbi sul fatto che il suo ricordo storico sarebbe stato positivo. Aveva passato l'infanzia leggendo le Vite Parallele di Plutarco e gli anni successivi a creare il proprio personaggio perché gli venisse assegnato un posto accanto a loro. Era sicuro di esserci riuscito; alcuni sostengono che la inspiegabile sconfitta di Waterloo sia almeno in parte dovuta a una sua pulsione verso un finale coerente con una vita da eroe romantico.
Nel 1821 fu Alessandro Manzoni con il 5 maggio, ode scritta in morte dell'imperatore, a dare inizio alla rilettura, alla lettura revisionista diremmo oggi, dell'epopea napoleonica che subito prese piede, si consolidò con il rientro della salma da Sant'Elena e con la salita al trono di Napoleone III divenne inarrestabile.
La rivalutazione così repentina dell'eredità napoleonica non fu l'esito di una campagna mediatica, né di un'affermazione politica. Precedette la stagione imperiale di Napoleone III e sopravvisse alla sua caduta. Ancora oggi si discute sul segno da attribuire alla sua esperienza di governante. Sono in pochi a credere in una possibile riabilitazione di Benito Mussolini o Adolf Hitler, forse considerazioni diverse valgono per Lenin e Stalin, ma anche il loro futuro mediatico non si presenta come roseo.
Domandarsi il perché di questi diversi destini per figure storiche che conquistarono e soprattutto gestirono un potere tendenzialmente assoluto non è ozioso. Mussolini tentò addirittura un esplicito auto riferimento con l'esperienza napoleonica, scrivendo Campo di Maggio, titolo che fa riferimento a un episodio sfortunato dei cento giorni, nel quale il dittatore italiano sostiene che la seconda caduta di Napoleone fu causata dai suoi cedimenti nei confronti di chi auspicava una democratizzazione del sistema politico francese.
Napoleone seppe cogliere elementi di progettualità proiettati nel futuro anche, forse soprattutto, nei tratti del suo agire che si ritorsero con violenza contro di lui. L'esperienza dell'impero francese, collegata con la guerra di Spagna e la campagna di Russia, la penalizzazione della Prussia a favore della Germania renana, tutti passaggi che portarono alla sua definitiva sconfitta militare, presentano oggi dei tratti quasi profetici nei confronti di un'Europa unificata. O da unificare meglio.
Nella costruzione dell'impero, che al momento del suo massimo sviluppo nel 1812 comprendeva Amburgo, Roma, Bruxelles, Barcellona, Torino, Amsterdam e Firenze, Napoleone non tentò mai di comprimere le istanze culturali dei paesi annessi. Niente imposizione della lingua francese, erano le leggi e la burocrazia centralizzata ed efficiente che dovevano costituire lo scheletro di uno Stato unificato. Riguardo alla Spagna l'imperatore non capì mai perché la popolazione dimostrava di preferire, come in breve avrebbero fatto anche i tedeschi, un governo peggiore, ma nazionale, a quello che lui cercava di imporre. Tutto l'amore per la Francia che provava non fece mai di lui un nazionalista di stampo lepenista.
La campagna di Russia, l'errore decisivo, coincise con un sogno, con l'ambizione di aver davvero unificato il continente in vista di un'impresa grandiosa. Ma soprattutto Napoleone fu l'uomo dell'égalité, dell'esportazione dell'uguaglianza rivoluzionaria, di questo valore individuato da San Paolo, cresciuto dal cristianesimo medievale e affermato dall'illuminismo, che le armate rivoluzionarie, ma soprattutto imperiali, diffusero in Europa. Fu allora che vennero cancellate in tutto il continente le leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, quelle olandesi che riducevano i diritti civili dei cattolici, quelle svizzere che consideravano il Canton Ticino terra di conquista degli altri cantoni. Sempre in nome di un principio semplice e assoluto “nello zaino di ogni soldato c'è un bastone da maresciallo”, come la variegata e variopinta corte parigina stava a dimostrare.
La contemporaneità di Napoleone con gli abitanti dell'Europa del Duemila derivò dal genio, non dall'educazione o dall'ideologia. Hilter e Mussolini, che geni non erano, portavano con sé un pensiero più antico del suo. L'imperatore si rivelava uomo del suo tempo, e della sua isola, nel mettere sui troni di tutto il continente i suoi familiari più stretti, nella superstizione e negli scatti di collera furibonda, più spesso sapeva scorgere i tratti di un futuro a volte così lontano da apparire incomprensibile ai contemporanei. Forse persino a lui stesso. Un tratto ne confermava con certezza le capacità visionarie: l'abbigliamento. In mezzo a una corte di parvenu, che vestivano chiassose divise gallonate d'oro, calcando cappelli piumati, Napoleone avanzava con indosso uno spolverino grigio e un cappello nero fuori moda. Una mise geniale che solo il più ispirato degli stilisti avrebbe potuto disegnare per lui. La memoria storica ce lo consegna come un grande, anche nel quadro di Paul Delaroche che lo ritrae a Fontainebleau il 31 marzo 1914, alla viglia della prima abdicazione. Stanco, scarmigliato, vinto, ma prossimo a prendere il suo posto fra i grandi interpreti della storia.