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Una trentina d'anni fa, quando alcuni grandi processi di terrorismo erano ancora in corso, era un luogo comune ripetuto spesso che non si potesse lasciare alle sentenze il compito di scrivere la storia politica degli anni '70. Dopo oltre tre decenni, con di mezzo tonnellate di pagine adeguate più alla spy-story di serie c che non alla ricostruzione storica, bisogna ammettere che quel luogo comune era fondamentalmente sbagliato. Gli atti giudiziari hanno i loro limiti ben chiari: le condizioni di costrizione nelle quali si svolsero gli interrogatori e le deposizioni, la naturale tendenza ad alleggerire la propria posizione da parte dei testimoni, pentiti o dissociati o anche irriducibili che fossero, l'ottica dei giudici che scrivevano le motivazioni delle sentenze, diversa da quella degli storici. Tuttavia, a paragone dell'alluvione di deliri in libertà che hanno poi confuso le acque sino a rendere impossibile distinguere l'acqua dal fango, quei verbali e quegli atti di tribunale aiutano a conoscere la verità degli anni '70 molto più della immensa mole di volumi non inutili ma dannosi sfornata dai cacciatori di misteri.Va da sé che ciò è vero soprattutto per il delitto Moro. Sarà prima o poi opportuno approfondire come e perché il sequestro, la detenzione e l'assassinio del presidente della Dc abbiano scatenato fantasie, liberato fantasmi, evocato ombre irreali puntualmente considerate più credibili della realtà nonostante la loro palese infondatezza. In un articolo comparso domenica sul Fatto quotidiano Stefania Limiti scrive come se nulla fosse che l'intera vicenda, «sparatoria, fuga in auto verso via Montalcini, l'angusta prigione, lo sparo nel garage e così via» sono solo «una finzione elaborata in una operazione dei servizi segreti, sponsorizzata da Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro». La prova sarebbe nelle conclusioni a cui è arrivata l'ultima delle tante commissioni parlamentari d'inchiesta sul caso Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Le quali per la verità non si scostano dalla "caciara" sollevata in questi anni senza alcun elemento probatorio solido a sostegno della solita logica, quella del "mi sa tanto" elevato a prova.E' in realtà possibile che la verità giudiziaria sui 55 giorni sia incompleta, che qualche brigatista o fiancheggiatore sia sfuggito alle indagini, che il trasporto di Moro subito dopo il sequestro sia avvenuto in un garage e non all'aperto. Ma la verità storica è invece fissata e chiara. Se gli oscuri burattinai immaginati dagli eredi di Ian Fleming avessero voluto Moro morto lo avrebbero fatto uccidere subito. Se i servizi segreti di qualche turpe potenza mondiale avessero manovrato le Br avrebbero anche fornito agli attentatori almeno armi moderne, invece di mitra arrugginiti che si incepparono tutti tranne uno in piena sparatoria. Se Giulio Andreotti avesse voluto l'esecuzione di Moro non avrebbe partecipato attivamente alla raccolta di 20 mld da offrire come riscatto, come invece fece al coperto del pontefice. Se il capo delle Br e plenipotenziario di fatto Mario Moretti avesse lavorato nell'ombra per conto di qualche burattinaio avrebbe eseguito la sentenza dopo la condanna, invece di rimandarla per 10 giorni e passa con tutti i rischi evidenti che ciò comportava. Non avrebbe fatto la lunghissima e pericolosissima telefonata del 29 aprile, che rappresentò il momento di massimo rischio per i brigatisti essendo molto elevata la possibilità di essere individuati e catturati o uccisi rimanendo tanto a lungo al telefono su una linea certamente sorvegliata. Se Mario Moretti non fosse chi dice di essere, inoltre, non sarebbe l'unico brigatista coinvolto nel sequestro ancora in carcere.L'idea di un complotto al quale partecipano Andreotti, Cossiga e Scalfaro, i vertici dei servizi segreti italiani e americani, i giudici Imposimato e Priore, Valerio Morucci e Adriana Faranda (confermati però da tutti i br con la sola eccezione di Alberto Franceschini) andrebbe definita col nome che merita: "terrapiattismo". Come la convinzione che la terra sia piatta abbia avuto la meglio su tutti i dati di realtà, sulle indagini, sulle sentenze, sulla logica è il mistero del caso Moro. L'unico.L'intemerata pubblicata dal Fatto quotidiano era in realtà un attacco contro Marco Bellocchio, reo di non aver creduto, nel suo lungo film Esterno Notte, alla bizzarre ricostruzioni dei Ghostbusters. Attacchi e critiche sono sempre leciti. Evitare di condurli in modo sgangherato sarebbe tuttavia opportuno. «Possiamo sempre prendercela con la politica, che viene facile, ma registi, giornalisti, letterati? Diamo a tutti licenza artistica e dicano un po' quel che vogliono?». Anche a mettere da parte il tono implicitamente ricattatorio, come si fa a definire «licenza artistica» la verità raggiunta coralmente dagli inquirenti (in decine di processi) e raccontata dagli imputati (tutti e sempre con l'eccezione unica di Franceschini) se non sulla base di un capovolgimento del più elementare senso comune? Il film di Bellocchio non è in realtà esaustivo. E' reticente su un elemento fondamentale del quadro: il ruolo del Pci, che impose di fatto la linea della fermezza minacciando in caso contrario una crisi di governo che la Dc non poteva in quel momento permettersi. Per tutto il resto è un film coraggioso, perché l'assurdità della situazione in Italia è che per dire quel che le sentenze stesse affermano ci vuole coraggio. Si rischia di incorrere nell'anatema di tutti quelli che «sanno senza aver le prove»: sono un esercito. Di sfuggita Esterno Notte è anche un film molto bello.