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«Per non sparire, il Pd deve fare come Roma con Annibale alle porte». Roberto Morassut, parlamentare romano e membro della Direzione del Pd, chiede il congresso al più presto, «in cui lanciare una nuova fase costituente che cambi: nome, struttura e forma al partito». Il governo è nato, ora il tempo dell’opposizione è davvero arrivato? Dopo questo convulso periodo di trattative è nato un governo con tanti elementi contraddittori, che impone al Pd di organizzare un’opposizione e che apre una stagione in cui dobbiamo ritrovare il nostro spazio politico. Da quali elementi del contratto di governo partirà questa opposizione? Mi spaventa, oltre alle misure tipiche della destra xenofoba, il complesso delle politiche economiche assolutamente non credibili. Trovo pericoloso questo alimentare l’inganno che un’Italia sofferente possa uscire da questa condizione con promesse irrealizzabili. L’idea che si possa ripartire allargando i cordoni della borsa, promettendo tutto a tutti senza costruire le condizioni graduali della ripresa, è corrosiva per la democrazia. Ci siamo già passati e le grandi mistificazioni hanno condotto il nostro paese alla catastrofe. Ieri eravate in piazza ed è stata di fatto la prima manifestazione contro il governo. Ci siamo mobilitati in difesa del Quirinale ma anche dei valori della Costituzione. Questo è un elemento di identità che per noi è salutare e prezioso soprattutto oggi, mentre assistiamo alla formazione del pri- mo governo della storia repubblicana costituito da forze, come Lega e 5 Stelle, che non si riconoscono per tradizione in modo esplicito nella Costituzione. Per noi si apre il tema della difesa delle basi della repubblica e della rinnovazione del loro radicamento nelle condizioni contemporanee. Quali risposte dà il Pd? Ora il partito deve cominciare a rivolgersi agli elettori scontenti e a chi ha scelto di votare altri partiti. Dobbiamo offrire una proposta rinnovata, perchè il loro ritorno non è automatico. Per questo serve una grande stagione congressuale, che metta al centro il Pd e il suo rapporto con la società. Eppure, verrebbe da dire che ora le priorità politiche sembrano altre rispetto al congresso, con un governo gialloverde a cui fare opposizione. Dobbiamo fare come Roma, quando Annibale era alle porte. La città sembrava ormai preda della conquista nemica, ma i romani reagirono prima con l’azione tattica di fare imboscate, poi con l’azione strategica di portare la guerra a casa del nemico. Il Pd dovrà fare questo: azione parlamentare serrata, sfruttando tutte le contraddizioni degli avversari, ma contemporaneamente andare alla riconquista degli elettori delusi che hanno votato lo schieramento opposto. Però, è necessaria prima un’operazione su noi stessi, perchè è evidente che il Pd così non regge più e se ci riproponiamo uguali a prima non otterremo nulla. E che cosa deve cambiare questo Pd sulla via dell’implosione, secondo lei? In tre parole: nome, struttura e forma partito. Dobbiamo diventare una forza politica con caratteristiche più di movimento, che riesca a parlare con il tessuto civico, il quale non vuole essere fagocitato in un partito ma federato in un progetto comune. Il congresso non deve essere un referendum tra nomi ma un congresso politico per tesi, che punti alla costruzione di un soggetto chiamato semplicemente “Democratici”, togliendo di mezzo la “P” di partito, come ho proposto già nel 2016, subito dopo la sconfitta alle amministrative di Roma. Poi potremo passare alla definizione di una nuova leadership. Quella “P”, però, non è un dettaglio da poco. Uno dei difetti del Pd è la struttura di partito novecentesco? Certo, il fatto di essere partiti novecenteschi è stato pagato da tutta la sinistra europea davanti alle trasformazioni di questi ultimi anni. Se pensiamo che questo spieghi tutto, però, troviamo solo alibi. Il limite del Pd è legato alla forma di partecipazione politica: piano piano è diventato un partito più vecchio dei partiti che lo hanno generato, che vive per correnti e organizzazioni verticali che hanno abbassato la qualità dei gruppi dirigenti. Questo è il nostro morbo da curare. L’idea del fronte repubblicano proposto da Calenda non le piace? E’ una proposta che può avere la sua ragion d’essere in una forma di raccordo parlamentare con altre forze di opposizione. La capisco, ma attenzione a non perdersi nella dialettica Europa sì- Europa no, perchè si presta ad ambiguità. La contrapposizione rischia di farci apparire come chiusi nella difesa dello status quo di un Euro che, invece, anche secondo noi ha bisogno di modifiche. Insomma, vedo il pericolo che il fronte repubblicano possa essere vissuto come un contrasto tra vecchio e nuovo, in cui noi rappresentiamo la vecchia classe politica. E quindi lei come procederebbe? L’ho già suggerito a Maurizio Martina e detto in direzione. Costruiamo una commissione, composta non solo dalle nostre personalità politiche ma anche da intellettuali come Massimo Cacciari, Gianrico Carofiglio, Roberto Saviano, Fabiola Giannotti, e diamo loro il compito di lavorare a un documento fondamentale dei Democratici. Dobbiamo ricostruire una base associativa più ampia, aperta a chi oggi è democratico per ideali ma non entrerebbe mai nel Pd così com’è. E così torna il nodo di chi si può caricare sulle spalle un percorso del genere. Il dilemma Renzi, insomma. Quello della leadership è un passaggio successivo al percorso costituente, ma le rispondo: pensare che il Pd possa rinunciare a Matteo Renzi è miope. Il ritorno di Renzi, però, può rischiare di riaccendere un dibattito fatto di personalismi che dobbiamo superare. Si può continuare ad orientare con le proprie idee anche in assenza di ruoli formali. I grandi leader fanno questo